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Coronavirus: intervista a Claudia Milazzo, infermiera a Imola

Di medici, infermieri e operatori sanitari abbiamo parlato molto negli ultimi due mesi, li abbiamo applauditi e abbiamo manifestato loro sentimenti di vicinanza e solidarietà. Oltre a questo è giusto però anche far parlare direttamente chi in queste settimane sta lavorando negli ospedali della nostra zona, a stretto contatto con il coronavirus. Per questo abbiamo intervista Claudia Milazzo, giovane infermiera all’ospedale di Imola.         

Intervista a Claudia Milazzo, infermiera

Da quanto lavori nel reparto Covid dell’ospedale di Imola e com’era la situazione quando hai iniziato?

Io ho iniziato il 30 marzo: quando sono arrivata i tre settori del mio reparto erano già pieni, parliamo di una trentina di persone in tutto. C’erano pazienti con diversi bisogni, chi doveva avere l’ossigeno, chi cure di base o un frequente monitoraggio. Al mio arrivo in questo reparto, i colleghi che avevano vissuto il boom iniziale erano molto stanchi, noi nuovi arrivati abbiamo rappresentato una boccata d’ossigeno per chi era già mentalmente e fisicamente provato.

Ora invece com’è la situazione?

Adesso la situazione è migliorata: dei tre settori, uno è senza pazienti da dieci giorni, un altro da circa una settimana. I pazienti quindi sono molto diminuiti: alcuni sono andati a casa dopo aver ottenuto il referto del tampone negativo, altri, che non avevano più bisogno dell’ossigeno, sono andati a finire la terapia in isolamento a casa o in albergo, a seconda delle necessità.

Molti operatori sanitari sono stati infettati: pensi che la tua salute di infermiera sia sufficientemente tutelata? Avete tutti i dispositivi di sicurezza di cui avete bisogno? Siete stati sottoposti ai tamponi e ai test sierologici?

L’azienda fa fronte alle nostre necessità nonostante il momento di crisi e i responsabili del dipartimento d’igiene ci tengono informati sulle direttive dell’Oms. Personalmente mi sento tutelata, in questo momento non abbiamo i calzari però ci dicono che non ce n’è bisogno nel reparto in cui sono io. L’ospedale ci dà la possibilità di fare la doccia a fine turno, abbiamo divise sempre pulite che cambiamo ogni giorno. Ci sentiamo abbastanza protetti, quindi, per quanto possibile di fronte a un virus che si conosce poco. I tamponi ci sono stati fatti due volte e anche il test sierologico che è comunque al centro di controversie per quanto riguarda l’attendibilità.

Sappiamo che questa malattia costringe a separare i malati dai loro affetti. Come vivono i pazienti questa situazione di isolamento? Voi del personale state facendo qualcosa per aiutarli a mantenere i contatti?

I pazienti sono stressati e tristi: tra loro c’è chi ha figli, chi nipoti. Noi cerchiamo di aiutarli con i telefoni perché molti sono anziani e non riescono a starci dietro e allora spieghiamo loro come funzionano le videochiamate, l’invio di foto e audio. Per quanto è possibile, perché non possiamo entrare spesso nelle loro stanze: quando io sono con loro cerco sempre di scherzare, fare battute per alleggerire la situazione in cui si trovano.

In che modo questo lavoro ha influenzato la tua vita privata?

Ha influenzato sicuramente tanto: vivo da sola e non ho la possibilità di vedere il mio fidanzato o i miei amici. L’attenzione, oltre che alla mia salute, va anche a quella degli altri visto il lavoro che faccio: io cerco poi di stare ancora più isolata rispetto agli altri e infatti è dall’otto marzo che non vedo nessuno.

Qual è lo stato d’animo con cui ti rechi al lavoro? Immagino che ci sia un po’ di paura…

Più che paura del virus, ho paura delle conseguenze. Vedo colleghi in ottima salute che, una volta infettati, sono finiti in rianimazione. Quindi sicuramente la paura di star male c’è ma c’è anche l’ansia dell’isolamento: in caso di infezione infatti l’isolamento per me si prolungherebbe ancora di più. Oltre a questi sentimenti c’è però anche l’adrenalina di essere in prima linea contro questo virus.

C’è una storia in particolare che ti ha colpita in questi giorni?

Sì, quella di una signora infettata qualche settimana fa con il marito. Il marito purtroppo è venuto a mancare e lei lo ha saputo qualche giorno fa dal nipote: si è trovata ad affrontare questo dolore da sola. Io ho cercato di parlarle, di starle accanto ma come si fa a consolare chi ha perso in questo modo una persona con cui è stata per tanti anni? Non è riuscita neanche a dirgli addio, non ci sarà una funzione religiosa, non ci sarà un ultimo saluto, non ci sarà un ultimo bacio, non ci sarà niente per loro. È l’aspetto più straziante di tutta questa vicenda.

Matteo Nati

Matteo Nati

Nato a Faenza nel 1993, sono laureato in Italianistica e Scienze linguistiche all’Università di Bologna. Ho insegnato per un anno all’Istituto Alberghiero di Riolo Terme ma continuo a non sapermi orientare in una cucina. Appassionato di pallacanestro, politica e storia inglese, datemi una serie tv con dialoghi ben scritti e sarò completamente vostro.

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