CARLO MUCCINELLI – Poeta romagnolo d.o.c.
CARLO MUCCINELLI (classe 1938) – romagnolo d.o.c.
Carlo è nato a Lugo ma vive a Faenza da oltre cinquant’anni. Ottimo poeta sia in dialetto che in lingua italiana.
E’ un poeta-narratore. I suoi versi hanno l’andamento della ballata che racconta fatti, sentimenti, storie piccole e grandi della gente romagnola. Della gente come noi.
La forza delle sue composizioni risiede nella memoria.
Le poesie di Carlo fanno rivivere la campagna romagnola della prima metà del Novecento e quegli ideali di libertà, uguaglianza e giustizia sociale che sono stati la spina dorsale della Romagna “rossa”. Nei suoi componimenti si intrecciano alle emozioni più genuine e profonde, le lotte politiche e le rivendicazioni sindacali delle generazioni che hanno animato la società italiana dal 1945 al 1995.
I romagnoli son gente testarda, dalla scorza dura, amara e ironica ma dal cuore pieno di emozioni e sensibilità… quasi sempre inesprimibili e perciò sovente nascoste sotto rudi travestimenti.
Nelle poesie di Carlo tutto ciò traspare con chiarezza.
Lo si vive e respira con il nitore di quelle lacrime che si intravedono fra rigo e rigo restituendoci una memoria importante del nostro dopoguerra.
Tra le sue raccolte vi proponiamo questa, da cui è tratta la poesia “Nuvembar”
Nuvembar Novembre
A là in zema Là, in cima
d’na rema ad un ramo
tota spoja, tutto spoglio,
u j’è armast c’è rimasto
sòl una foja . solo una foglia.
Un po’ zala, Un po’ gialla,
un po’ rossa, un po’ rossa,
la mostra mostra
la faza, za pasa, la faccia, già appassita,
u i trema la pota, le trema la punta,
l’è vecia, acsè straca! è vecchia, così stanca!
Un fil d’vènt Un filo di vento
u la ciapa, la prende,
la scosa, si agita,
la dondla, dondola,
la s’élza, si alza,
la prèla, si gira,
la s’volta… si volge…
la pê propi sembra proprio
na men znina, una mano piccolina,
söla, sparuta, sola, sperduta,
maleda, sfinida, malata, sfinita,
a là cl’at saluta. là, che ti saluta.
Long e svintai Lunga, la sventagliata
d’cölp u la staca. di colpo la stacca.
La sfrola, Frulla,
la völa, vola,
la s’conla si dondola
a mez’aria, a mezz’aria,
in s’l’onda sull’onda
la sfolga, scivola,
la strescia striscia
so in sl’érba, sull’erba,
l’armèsta rimane
a lè férma, lì ferma,
smarida, smarrita,
pr’un po’la suspira, per un poco sospira,
mo l’è za qvasi isteca. ma è già quasi rigida.
E sol u la seca. Il sole la secca.
Pureta! Poveretta!
Un babè, Un bambino
seza avdéla, senza vederla,
u la pesta. la calpesta.
La scrocla, Sgrigiola,
la s’piatla, si appiattisce,
la gueta diventa
na macia una macchia
stampeda stampata
in s’la porbia. sulla polvere.
E pe’ che e su rem Sembra che il suo ramo
incöra u la cièma, ancora la chiami,
acsè scur, così scuro,
acsè nud! così nudo!
U si ataca Gli si attacca
la nebia, la nebbia,
la pienz piange
una goza una goccia
cla brela, che brilla,
la s’aslonga, si allunga,
la chèsca, cade,
la cioca schiocca
in s’la foja. sulla foglia.
U s’ferma e babè, Si ferma il bambino,
u s’met a guardê, si mette a guardare,
u s’zira, l’ascolta, si gira, ascolta,
l’armesta alè atent, rimane lì attento,
j’occ firum, a pinsê. gl’occhi fermi, a pensare.
A cosa chisà?! A cosa chissà?!
L’éra söl Era solo
una goza, una goccia,
caduda caduta
in s’na foja, su una foglia,
sciazeda schiacciata
in s’la porbia. sulla polvere.
E fat e fò acsè, Il fatto fu così,
il savéva za tot. lo sapevano già tutti.
Parò un finè alè. Però non finì lì.
E babè u s’vultè Il bimbo si girò
a lè ferum a guardê lì fermo a guardare
in te fond di mi occ in fondo ai miei occhi
e a fò mè c’armastè e fui io che rimasi
a lè zet, a pinsê, lì zitto, a pensare,
quend cu m’cmandè: quando mi chiese :
— E pu dop? — — E poi dopo ? —
Foto: “Novembre” di L. Birge Harrison
Bellissima spero ne pubblichi altre
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