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Lo sport maestro di vita: il libro a quattro mani di Daigoro Timoncini e Mirko Mazzoli

Lo scorso aprile l’atleta olimpionico di lotta Daigoro Timoncini ha annunciato il suo ritiro dall’agonismo, ma la sua collaborazione con lo psicologo dello sport e psicoterapeuta Mirko Mazzoli, che lo ha seguito durante la carriera agonistica fin dal 2007, ha fruttato anche al di fuori del tappeto di gara: Lo sport maestro di vita (White Line), scritto a quattro mani e presentato due giorni fa in comune a Faenza con i sindaci dell’Unione della Romagna faentina, racchiude le esperienze dei due autori, avvalorate dal contributo del professor Andrea Ceciliani e dalle testimonianze di altri atleti olimpionici di lotta. Buonsenso Faenza li ha intervistati per voi.

Il libro rappresenta lo sport come metafora di vita e spiega quali siano le abilità (definite life skills nel libro) che, se sviluppate correttamente, possono aiutare a fronteggiare piccoli e grandi ostacoli. Lo sguardo, quindi, è rivolto all’interiorità dell’uomo. Quando è nata questa riflessione e l’idea di svilupparla su carta?

Mazzoli: «Sicuramente tutto è nato grazie agli interessi e alla sensibilità di Daigoro e dal fatto che condividiamo una visione dello sport come scuola di vita».

Timoncini: «Quando mi è stato proposto di scrivere questo libro, ho pensato subito di unire la mia storia all’esperienza professionale di Mirko, anche per poter sfruttare ciò che avevo imparato preparando la mia tesi di laurea Valori educativi  del gioco e degli sport di lotto in età evolutiva».

Dott. Mazzoli, lei ha a che fare sportivi di tutte le età e a diversi livelli: quali sono le caratteristiche che riscontra in ogni campo e quali, invece, quelle tipiche di una certa fascia, per esempio tra gli agonisti?

«Quello che riscontro a tutti i livelli e soprattutto nei giovani è lo stress mentale pre-gara: la mente diventa troppo piena, il battito cardiaco accelera… Circa dieci anni Daigoro fa mi disse “A volte la tensione ti fa lottare prima ancora di salire sul tappeto”. È proprio così. Si sapeva già, ma adesso ne abbiamo anche le prove scientifiche: l’affaticamento mentale è pari, se non maggiore di quello fisico. Un altro punto in comune tra i più giovani, quando si inizia a vincere, è il non gareggiare più per se stessi, ma per gratificare il tecnico, o il genitore. Per via delle pressioni si porta il focus altrove».

Timoncini, tra le life skills citate nel libro, qual è quella su cui ha lavorato più duramente e quale l’ha aiutata di più?

«Direi la consapevolezza di sé. Lo sport mi ha aiutato a conoscermi, a parlare con la parte interiore che nella vita di tutti i giorni quasi si perde. Quando ti metti di fronte a te stesso, capendo quali sono le tue responsabilità e cosa dipende solo da te, non hai più abili e scusanti.  Anche la gestione delle emozioni è decisiva per atleti ad alto livello: ho visto persone molto più forti di me perdersi proprio per mancanza di controllo emotivo.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, la determinazione, anche se non è proprio una life skill. Nel libro c’è una fotografia a cui tengo molto di quando ho iniziato a far lotta: ero un bambino obeso, ma un bambino che ha creduto in se stesso, e secondo me è ciò ha fatto la differenza fin da subito. La motivazione che si ha dentro paga molto di più del focalizzarsi solo sulla vittoria. Puoi avere talento innato, ma è la costanza data da ciò che ti spinge a perseverare nell’obiettivo che ti fa diventare un campione».

Come è cambiato il significato e l’approccio allo sport negli ultimi anni, rispetto a quando avete iniziato a praticarlo (Mazzoli è stato pallanuotista in una squadra di serie A1, n.d.r.)?

Mazzoli: «Lo sport ha una componente intrinseca di fatica, non solo fisica ma anche organizzativa: bisogna spostarsi, tornare a casa tardi, impegnare il fine settimana… per questo gli atleti tirano indietro: c’è un’amichevole? Una volta ci sarebbe stata la corsa per essere convocati, ora sono tutti assenti. La causa è quella che io chiamo “dipendenza dal benessere”. A casa hai tutto, hai l’x-box, le comodità che ti fanno perdere la spinta e ti convincono ad andare in palestra un giorno in meno, anziché in più».

Timoncini: «Lancio una provocazione. È vero che c’è molto abbandono in età giovanile e forse è vero che quello che già si ha fa dire ai ragazzi “Perché devo fare tutta questa fatica, quando posso stare bene facendo altro?”, ma io ho una visione più romantica e dico un’altra cosa: forse è dentro lo sport che stanno venendo a mancare alcuni valori. Se do il 100% ma poi non dall’altra parte non ho un riscontro, forse la volta dopo mi impegno all’80%. Se poi quello che vedo è negligenza, pressapochismo, dopo un po’ vado a fare altro. Nell’ambiente della lotta, per esempio, sembra che non debba più esserci il legame tra atleta e allenatore. Ma se mi guardo indietro, senza il mio rapporto con il mio primo allenatore certe cose non le avrei fatte. Se per il sistema i valori sono cambiati, l’allenatore non è più un punto di riferimento e il ragazzo è solo un numero, allora è normale che dopo un po’ vada da un’altra parte. Ho avuto grandi allenatori che mi hanno fatto fare il salto di qualità, ma la voglia di raggiungere un obiettivo e la sensazione di potercela fare mi è stata data fin da quando ero piccolo. Se non c’è qualità, ma interessi politici ed economici, l’atleta perde interesse».

Simon Biles, forse la miglior ginnasta al mondo degli ultimi vent’anni, a Tokyo si è ritirata da quasi tutte le finali per le quali si era qualificata, dicendo di volersi concentrare sulla propria salute mentale. Sempre Biles è una delle tante atlete americane ad aver accusato l’ex medico della nazionale Larry Nassar di violenza sessuale. Da atleta e da psicologo, come commentate i fatti?

Timoncini: Un conto è vincere, un altro è confermarsi. Credo che Biles non abbia saputo gestire la pressione e fosse troppo stressata. Il tema delle molestie è molto delicato: qui è il sistema americano che non funziona e andrebbe rivoluzionato, ma si torna sempre allo stesso discorso: a certi livelli lo sport diventa politica e, se non ti adegui, sei tagliato fuori. Finché sei “solo” un atleta, la disciplina sportiva è meritocratica; quando diventi altro, lo diventa anche quella, purtroppo. Però ci sono cose che devono saltare fuori e basta: quello non è sport.

Mazzoli: «Le vittime di abuso spesso sono immerse nei cosiddetti ambienti abusivi, cioè che tollerano l’abuso. Si tollera perché la malattia mentale non è concepita come una qualsiasi altra malattia da curare. Parlare di patologie mentali è difficile, soprattutto quando le persone che ne sono affette, buone o cattive che siano, sembrano perfettamente integrate nella società. Quello che voglio dire è che bisogna denunciare subito, perché queste cose esistono e sono ovunque: nei luoghi di lavoro, in famiglia, nelle società sportive. Gli atleti, essendo dentro a un apparato che sopporta e nasconde questa problematica, pensano che l’unica possibilità per non essere estromessi sia rimanere in silenzio. Monito agli adulti coinvolti: il bambino o la bambina danno sempre segnali, bisogna avere gli occhi aperti e intervenire subito. Non stare a certe dinamiche, ma approfondire. Non è facile, ma gli indicatori ci sono».

Timoncini, quali sono i suoi progetti per il futuro?

«Mi piacerebbe rimanere nel mondo sportivo ma il come è ancora da decidere. Sto diventando allenatore ma non tutti condividono certe mie scelte, perciò sto valutando anche altro».

 

 

Maria Rivola

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