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“I giovani e il territorio vincono insieme”: intervista a Gianluca Giovannetti

Innovazione, sostegno al territorio, formazione e cultura: questi alcuni dei temi su cui verterà l’evento “La città contendibile” che si terrà a Faenza venerdì 15 dicembre a Palazzo Naldi (via San Giovanni Bosco, 1) con inizio alle ore 18. Nel corso dell’incontro, in cui la Fondazione Banca del Monte e Cassa di Risparmio di Faenza presenterà il Piano triennale 2018-20 in vista del passaggio di testimone alla presidenza, Gianluca Giovannetti (Chief Information, Process and Business Transformation Officer; nel 2015 premiato da Cionet Italia Award, il premio tutto italiano dedicato ai Cio delle Aziende Top e Medio- Grandi in Italia promosso ed organizzato da Cionet Italia) approfondirà lo scenario che riguarda giovani, territorio e innovazione: spunti importanti sui quali tracciare le linee future di sviluppo. Ecco l’intervista in cui anticipa alcune considerazioni in vista dell’evento del 15 dicembre. 

Intervista a Gianluca Giovannetti: “I territori devono saper essere attrattivi ai giovani”

Gianluca Giovannetti, nel corso dell’evento “La città contendibile” che si terrà a Faenza il 15 dicembre, lei tratterà il tema “I giovani e il territorio vincono insieme”. Partiamo da una considerazione preliminare: è più il territorio che deve offrire opportunità ai giovani, o sono i giovani che devono rivitalizzare e ridare valore al territorio?

Preciso subito: è il territorio che deve risultare attrattivo ai giovani, non il contrario. I giovani, in questo contesto, rappresentano una variabile positiva. Un’altra considerazione che faccio è che i giovani vanno in quei territori che sanno offrire loro opportunità concrete. Nel mondo di oggi, un mondo molto complesso e in continua evoluzione, l’asticella di qualità richiesta ai territori si è alzata, devono rispondere prontamente alle esigenze del presente per risultare attrattivi ai giovani. Molte barriere sono venute meno – fortunatamente direi – e questo porta i giovani, in maniera più forte rispetto al passato, a lasciare il luogo in cui si sono formati per cercare territori più attrattivi. Di contro, territori che non stanno al passo coi tempi rischiano di essere ‘abbandonati’. Ritengo però che dietro questa complessità ci siano anche tante opportunità da poter cogliere.

Quali sono le mosse giuste – da parte di imprese, istituzioni e società civile – per rendere questo connubio vincente? Può esporci dei case history italiani da prendere a modello e che rispecchiano situazioni in cui, riprendendo l’espressione utilizzata precedentemente, “giovani e territorio hanno vinto assieme”?

Nel rispondere a questa domanda, a proposito di case history, lascio da parte il contesto delle grandi città, anche se forse va fatta un’annotazione sui grandi centri metropolitani. Queste realtà infatti, tendenzialmente, hanno una complessità molto minore da gestire. Nelle città metropolitane infatti si realizza una convergenza molto forte sia da parte degli investimenti privati sia da parte degli indirizzi politici: di fatto le città metropolitane sono messe nelle condizioni migliori per agire per quanto riguarda sviluppo e innovazione, e per questo risultano più attrattive nei confronti dei giovani. Basta leggere il dato fra ingressi e uscite dei giovani ‘under 30’ a Milano: il bilancio pende nettamente a favore di questa città metropolitana. E qui non si parla semplicemente di numeri: i giovani portano con sé anche una ricchezza intellettuale e un’energia unica capace di essere una risorsa preziosa.

Muner University: un esempio positivo capace di coinvolgere giovani, imprenditoria e ricerca

Per quanto riguarda dunque gli altri contesti invece?

La presentazione della Motorvehicle University Emilia-Romagna.

Tra gli esempi positivi, mi preme sottolinearne uno vicino all’area faentina: quello rappresentato dall’asse emiliano della via Emilia. Città come Modena, Parma e Reggio Emilia hanno fatto sistema presentando soluzioni innovative partendo dalle potenzialità del territorio. Un esempio di ecosistema innovativo, composto da imprenditori illuminati da un lato e mondo universitario dall’altro, è quello costituito dalla Motor Valley che ha portato di recente alla nascita del Muner University (Motorvehicle university of Emilia-Romagna, l’Università della tecnologia dell’automobile). È una realtà intra-universitaria al cui interno operano anche aziende del territorio, come la Toro Rosso di Faenza. Questa iniziativa fa capire l’impatto che si può avere quando dialogano tra loro il mondo delle imprese e quello accademico. Di tutto questo se ne avvantaggiano i giovani del territorio che, trovando questa area attrattiva, decidono di investire qui la loro formazione e carriera lavorativa. Diversamente i nostri giovani preferiranno altri territori.

Se dovessimo riassumere, qual è la ricetta? 

Il modello di sviluppo del territorio deve avere un buon equilibrio, garantito da un buon sviluppo imprenditoriale, un buon cluster di imprenditori, università di ottimo livello e anche luoghi che fungano da sviluppo per l’innovazione. Un esempio di questo tipo, nel faentino, è rappresentato dal Contamination Lab del progetto Salesiani 2.0: realtà di questo tipo sono necessarie per “fare da ponte” e favorire l’interlocuzione fra questi diversi soggetti.

In Italia si lamenta ancora una vera e propria “cultura d’impresa” non solo in aziende consolidate ma anche nella formazione dei giovani. Lei è d’accordo? Quali sono gli strumenti per colmare questo gap con gli altri Paesi?

A mio avviso questo è un tema fondamentale, che risente ancora di aspetti di natura puramente ideologica. Senza dover per forza rifarsi a chissà quali momenti storico-culturali del nostro Paese, in Italia la “cultura d’impresa” è vista in una prospettiva meno nobile rispetto a quanto avviene in altri Paesi, come la Germania o gli Stati Uniti per citarne alcuni. In Italia si è sempre pensato, quando si parla di “cultura d’impresa”, come a una contrapposizione tra imprenditori e dipendenti, tra forti e deboli… per riuscire a rispondere in modo equilibrato a questa domanda, bisogna innanzitutto mettere da parte questa contrapposizione ideologica. Anche perché “cultura d’impresa” vuol dire benessere per i territori, sotto tutti gli aspetti, e questo fatto è comprovato dalla storia. L’esempio esposto alla domanda precedente penso possa ben rispondere anche a questo quesito: nei territori con ecosistemi che si contaminano e decidono di mettersi a sistema è evidente che, tendenzialmente, la comunità tutta ne esce avvantaggiata.

“In un mondo in continuo cambiamento, ritengo molto importante la creazione di realtà che facciano ‘da ponte’ a diversi ecosistemi”

Allargando lo sguardo, in un’intervista lei ha dichiarato che: “alle nostre imprese serve una nuova visione radicale”. Che cosa intende esattamente con questa espressione? E i giovani possono essere una risorsa per arrivare a questa nuova visione radicale?

Assolutamente sì: i giovani sono gli unici che, entrando a lavorare in un’azienda, possono accelerare il processo verso una visione più larga e senza pregiudizi. Ciò porta a una modalità di prendere delle decisioni diversa da quella abitudinaria, favorendo il miglioramento. È una visione che obbliga le persone a mettersi in gioco. Viviamo in un’era che porta con sé un concetto di perenne situazione di provvisorietà, che può e deve essere interpretata in modo nuovo. Preciso: non è scontato e non è automatico che “l’essere giovane” sia una cosa che, di per sé, garantisca questo nuovo tipo di visione. L’essere giovani anagraficamente è una grande opportunità, ma non è sufficiente per farsi paladini del cambiamento: è una condizione necessaria ma non sufficiente. In generale penso che dietro la complessità ci sia sempre una grande opportunità, un’opportunità che però – a questi giovani – nessuno regalerà e nessuno offrirà, per cui dovranno riuscire a “conquistarla”. Per questo i giovani devono avere anche determinazione e “cattiveria”: caratteristiche fondamentali per chi vuole giocare la partita dell’innovazione e del cambiamento.

La “cultura digitale” il primo driver all’innovazione. Secondo lei la formazione scolastica-universitaria sta supportando questa risorsa, oppure ritiene ci sia ancora un forte scollegamento, in questo ambito, tra aziende e mondo della formazione?

Salesiani 2.0
Palazzo Naldi, sede del Contamination Lab.

Non so se la cultura digitale sia il primo driver dell’innovazione, sicuramente è il driver che, più di tutti, ha spostato gli equilibri e lo ha fatto in maniera clamorosa. Quello che abbiamo visto negli ultimi cinque anni, realizzato dall’asset digitale, probabilmente non è nulla rispetto a quello che vedremo nei prossimi dieci anni. Per questo ritengo molto importante la creazione di realtà che facciano “da ponte” a diversi ecosistemi. Le aziende non è detto che sappiano fare domande corrette o sappiano dare risposte pronte alle esigenze del momento: il futuro non è così nitido come in passato. Credo che nuovi centri nevralgici siano necessari per comprendere, e far comprendere a terzi, quali sono i driver di crescita e innovazione su cui puntare.

“In ambito imprenditoriale una buona dose di ‘rischio’ e ‘follia’ è necessaria”

“Rischio” e “Follia” sono due parole che utilizza molto quando espone le sue idee in ambito imprenditoriale. Secondo lei sono anche parole – non solo importanti, ma necessarie – che devono guidare un giovane che volesse intraprendere un percorso imprenditoriale?

Utilizzando una metafora gastronomica, di cui sono appassionato, per me “rischio” e “follia” in ambito imprenditoriale sono come il sale e il pepe in un piatto: sono fondamentali entrambi e vanno dosati “quanto basta” per sostenere l’avventura che si sta per intraprendere, non possono mai mancare. Chiaramente sono parole che i giovani, più di tutti, sanno e devono mettere in pratica. Spesso, paradossalmente, è più pericoloso il concetto contrario, quello del “comfort”, con il quale in impresa si corrono notevoli rischi. Per cambiare e migliorare bisogna prendere dei rischi, ovviamente calcolati, e questi rischi vanno mixati con una giusta dose di “follia”. Specialmente nel mondo futuro che ci aspetta, sempre meno decifrabile e in evoluzione, la “follia” è un aspetto necessario da mettere in pratica nel proprio modello di business.

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