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#FAENTINIeMIGRANTI – Intervista agli operatori Caritas

Quando si trattano i temi della povertà e dell’integrazione è difficile non pensare in prima battuta alla Caritas. Tutti sappiamo che bene o male in ogni città di medie dimensioni possiamo trovare una o più strutture gestite da operatori o volontari della Caritas, impegnati in azioni di contrasto ai fenomeni della marginalità sociale e di assistenza ai più bisognosi. Organismo della Chiesa Cattolica locale, la Caritas diocesana a Faenza è il gestore di un gruppo di 30 richiedenti asilo: 8 pakistani, 12 nigeriani e 10 bengalesi giunti in città fra il novembre del 2013 e il giugno del 2015. Questi tre nuclei rappresentano la più numerosa comunità di richiedenti asilo presenti sul comune di Faenza, e la loro presenza tra una struttura in centro e una ex scuola in località San Giovannino è nota alla cittadinanza. Quello che abbiamo chiesto a Danilo Cicognani, referente comunità rifugiati Caritas, e all’operatore Caritas Davide Agresti, è un’esperienza diretta da chi si rapporta quotidianamente con chi giunge nel nostro paese con la speranza di ricevere asilo politico.

 

Quali sono le vostre priorità nei progetti di accoglienza e di integrazione che portate avanti e quali sono i suoi passi fondamentali?

Lo scopo primario è promuovere la persona che troviamo davanti, dargli gli strumenti per essere indipendenti e camminare con le proprie gambe sul territorio. Quindi ovviamente l’apprendimento della lingua, l’incontro con dei giovani, l’inclusione tramite lo sport e il volontariato come input che stiamo mettendo in campo per l’inclusione sui territori. L’assistenza sanitaria e legale, li vedo invece come aspetti più strutturali, ma che naturalmente portiamo avanti. Senza i volontari della Caritas la nostra offerta non sarebbe quella che è: l’associazione Farsi Prossimo ha 150 volontari, voi capite bene che anche solo con un’oretta di disponibilità abbiamo una mole di energia da mettere a disposizione. E viene dai cittadini di Faenza. Il mio servizio non sarebbe quello senza di loro, anche se ovviamente ho bisogno di persone che sappiano l’inglese e sappiano come rapportarsi con i richiedenti asilo.

Voi conoscete le motivazioni che spingono molti richiedenti asilo a trovarsi in Italia. Cosa pensate che andrebbe fatto come progetti di gestione dei flussi migratori a livello macro, per risolvere un problema che è esploso questa estate ma che voi state affrontando da novembre 2013? Il tema era già sul piatto da tempo, e cosa si potrebbe fare a livello italiano ed internazionale per rendere più strutturati i progetti di accoglienza?

Noi abbiamo aperto i primi progetti di accoglienza in realtà ad aprile 2011, con una trentina di richiedenti asilo, di cui 20 in gestione al Comune di Faenza. Questo ci ha permesso di fare esperienza e per esempio abbiamo deciso di partire dai pakistani, che conoscevamo meglio, e di richiedere una sola nazionalità, quando prima avevamo una “macedonia”. Ciò infatti aveva creato mancanza di fiducia e dinamiche strane all’interno della casa, dove le differenti nazionalità non riuscivano a convivere serenamente. L’esperienza dell’emergenza Nord Africa, dovuta alla crisi in Libia e alla caduta del regime di Gheddafi, ci ha dato un bagaglio di esperienza importante.  

Cosa fare a livello macro? Il problema attuale è che si deve creare una struttura inesistente, a fronte di nuovi sfide. Come se avessimo il triplo dei malati per gli ospedali: mancano le strutture ricettive, gli operatori per seguire le persone che arrivano… Oltre alla quota giornaliera per i richiedenti lo Stato dovrebbe stimolare la formazione dei gestori. Noi abbiamo un’esperienza più lunga, ma se metti in piedi dei corsi e prepari gli operatori hai questa possibilità per tutti. Se domani la parrocchia “Pinco” prende 5 richiedenti asilo, non è che sono cattivi, ma per forza li gestisce male: non ha la capacità di farlo. Il bando che fa la Prefettura vola molto alto, e richiede una gestione perfetta. A livello italiano, lasciando da parte la questione illegalità, la società è abbastanza aperta e accogliente, ma il rischio è prendersi un impegno che non sei capace di gestire. Bisogna investire nella formazione, perché l’incremento delle quote è esponenziale.

Foto tratta da www.caritasfaenza.it
Foto tratta da www.caritasfaenza.it

Avete un consiglio o una buona norma che raccomandereste ai faentini per entrare in relazione con i richiedenti asilo, e superare così lo scetticismo nei loro confronti che qualcuno potrebbe legittimamente avere?

Non ho un consiglio specifico, se non quello di non avere pregiudizi. Lo vedi: è nero, è un richiedente asilo, pensi che sia un delinquente venuto a rubarci il lavoro. Bisogna cercare l’incontro. Ma qual è il problema, sono capaci i ragazzi di comunicare? E’ difficile. Quindi serve anche la pazienza del faentino di sedersi, chiacchierare prima con noi, poi con loro, conoscerli gradualmente. Un ragazzo, amico di un nostro operatore, mi ha chiamato per chiedermi: “posso uscire con quel ragazzo lì?”. Guarda, lui ha questi orari di rientro, e se non è tutte le sere ma una volta e torni invece che alle undici torni a mezzanotte, a noi va bene e a noi serve questo. Io da modiglianese poi in generale vedo una società aperta a Faenza, che si dà da fare, ma magari fa meno rumore della parte meno accogliente. Se io dovessi sbilanciarmi la comunità faentina mi sembra però accogliente. Abbiamo ad esempio dei nigeriani che lavorano per la manutenzione del verde urbano al Comune, parlando con un ragazzo mi ha detto che gli italiani mentre lavorava venivano a chiedergli chi era, da dove veniva… e lui faceva fatica a rispondergli. Io cosa devo dire a un faentino? Al nigeriano gli dico: “tutte le volte che non riesci a rispondere perdi delle occasioni. Che tu debba sapere l’italiano quando è un anno che sei qua, mi sembra normale. E’ responsabilità tua. Hai saltato dei corsi? Hai preferito a volte fare altre cose? Adesso paghi questa scelta”. Ma il faentino che va lì e gli fa due domande è bello. Faccio fatica a parlar male di Faenza, e non ricordo episodi in cui faentini si sono comportati male.

Anche nel dibattito pubblico però diciamo che ci sono delle posizioni meno favorevoli alle vostre attività e anche nel caso specifico nei confronti della Caritas che a volte è percepita come una emanazione della Chiesa, e voi come dei professionisti dell’assistenzialismo. Qual è il vostro punto di vista su questo tema?

Quello che noi cerchiamo di fare è esattamente l’opposto: l’assistenzialismo fatto male è quello nel quale tu crei dipendenza, e per camminare hai bisogno della stampella della Caritas. Noi vogliamo il contrario, che la persona abbia i propri strumenti per prendere il volo ed essere indipendente. La promozione umana ha come scopo il dire: tu sei Francesco, hai un problema ma hai le risorse per risolverlo. Le risorse le hai te. Quando i ragazzi mi chiedono dei soldi, io gli dico di risparmiarli. Ne hanno pochissimi, ma non possono fare gli accattoni. Io i soldi li avrei, ma come un genitore dice di no al figlio… ecco, forse chi non ci conosce può dire che siamo assistenzialisti.

L’altro aggettivo che si sente spesso per descrivere il vostro approccio, e di altri operatori del sociale anche non cattolico, è quello del “buonista”. Voi come vi ponete rispetto a questo termine?

Io tendo spesso a essere quello che ha la linea più dura e sfiderei qualche leghista a venire qua ogni tanto: scommetterei sarebbe un po’ più morbidino, perché a parole essere duri san fare tutti. Ma quando poi devi dire dei no, tenere botta per un no educativo non è così facile. Quando hai dei richiedenti asilo che chiedono e chiedono, il più delle volte le risorse le hai anche, ma magari la determinata cosa non porta a nessun bene. Non ritengo che come operato noi siamo dei buonisti, e se uno viene qua si accorge che cerchiamo il bene della persona, ma se per buonista si intende il “sì, sì, ti coccolo, ti allaccio le scarpe…”. Faccio fatica a capire, se il buonista è questo siamo molto, molto lontani. Anni luce. Comunque se mi dicessero che sono un buonista non saprei neanche come sentirmi. Sarebbe come se mi dicessero che sono moro e scuro di pelle (Danilo è biondo e di carnagione chiara, ndr). Ognuno ha le sue idee, ma non mi verrebbe nessun dubbio.

Una cosa importante però è l’informazione, che si può dare in un modo o in un altro. Faccio un esempio. Noi siamo una delle poche strutture che per scelta nostra all’arrivo decidiamo di dare la bicicletta, cosa non prevista dalla convenzione. Uno potrebbe chiedere: ma come, gli prendete le bici nuove? No, prima cosa è stata una valutazione economica. Io nel corso degli anni mi sono reso conto che se la compravo usata all’inizio spendevo meno, ma poi avevo tutti i mesi 300 euro di spese per mantenerle. Le prendo nuove allora, con due anni di garanzia, e dico ai ragazzi che se forano e se guastano qualcosa, loro la devono mantenere. Per questo c’è un rapporto in cui ti rendo responsabile, e la bici mi rende un ragazzo indipendente. Se non gliela do, non dico che devo essere buonista e accompagnarlo in giro sempre, ma quelli a San Giovannino (Reda) se vogliono spostarsi come fanno? Con la bici gli dai uno strumento per essere indipendenti. Ma questa informazione la puoi dare come “ah, la Caritas spende 2000 euro per le biciclette!”. È un dato oggettivo, anche di più. Però come amministrazione io so, e sono laureato in matematica, che per scelta economica risparmiamo. Questa informazione la puoi rigirare: bici nuove per i profughi, mentre ai poveri di Faenza non gliela prendono.

Davide Agresti: E’ difficile da descrivere a chi non ha a che fare con questi ragazzi tutto il giorno: io bene o male nel mio orario lavorativo ricevo delle richieste. E basta, dai ragazzi. Sembra assurdo ma il 90% del tempo lo impiego a rispondere delle richieste che i ragazzi mi fanno. La scarpa rotta, la bici che non va, il telefono che non funziona… proprio per questo non mi sento affatto buonista. I ragazzi ottengono molti no. Ma è una cosa difficile da spiegare a chi non ha modo o opportunità di avere questa relazioni con dei richiedenti asilo politico. Una cosa che secondo me molti sbagliano, e magari sono le persone da cui provengono certe critiche, è che si dimenticano che queste persone scappano da paesi in cui gli sono negati dei diritti umani, essenzialmente. Io posso capire che possa dare fastidio un richiedente asilo che con lo smartphone in piazza usa il wi-fi: scappi dalla guerra e poi stai in piazza su una panchina a usare internet?!? Magari sta usando Skype per telefonare alla moglie in Nigeria. Nel 2015 ad esempio il diritto a comunicare con i tuoi familiari è un diritto che dovrebbe essere universalmente riconosciuto. Se essere buonisti è dare certi strumenti per mettersi in contatto con la famiglia a migliaia di chilometri di distanza, c’è una concezione del buonismo sbagliata secondo me.

Danilo: L’esempio del wi-fi poi è un tema su cui si fa fatica a darci dei buonisti, della modalità “chiedi ed ottieni”. Sul wi-fi, a livello economico non mi darebbe nessun problema. Ma la nostra è una scelta politica: no, tu ti chiuderesti in casa, ti isoleresti di più quando noi vogliamo che voi facciate come le famiglie che non ce l’hanno e ti muovi andando in piazza o in biblioteca. Buonista vuol dire tutto o niente. Rispetto alle critiche: se uno non vuole cambiare idea non la cambia. Se uno vuole conoscere e poi farsi una sua idea, responsabilmente da persona natura si deve informare. Ma, è uno dei problemi dell’Italia, tutti vogliamo esprimere opinioni su tutto senza essere informati. La cosa che a volte mi ha toccato rispetto a delle interpellanze fatte in consiglio comunale è che sono state fatte delle insinuazioni senza prima venire qua. Dopo mi puoi dire tutto, ma prima incontriamoci e parliamone, poi puoi dire che lavoro male. Altrimenti mi dispiace e posso dire solo che uno parla senza sapere. Di articoli sotto le elezioni ne ho letti molti: “la Caritas prende altri 30 richiedenti”, quando ne prendevamo 11 a fronte di 20 già presenti. Però l’informazione è che arrivano altri 30 rifugiati. Tutti i giorni avrei potuto scrivere delle rettifiche a degli articoli con delle sciocchezze assurde. L’idea comunque che, per concludere, voglio sottolineare è che i ragazzi hanno potuto subire delle cose che noi possiamo solo relegarli ai nostri nonni: teniamo presente la povertà e le violenze che hanno subito loro. L’idea che è nella testa di tanti è che siccome sono fuggiti da paesi in certe condizioni e noi benevolmente gli accogliamo, loro non meritino uno stato di diritto uguale al nostro.

A cura di Andrea Piazza, Samuele Marchi e Alberto Fuschini

APPROFONDIMENTO

Per capire in quali settori opera la Caritas, è consultabile sul web il rapporto Caritas 2014 sulla povertà a Faenza.

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