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Esce il libro sulle storie ‘nere’ di Faenza: intervista a Mattia Randi, uno degli autori

Giovedì 3 dicembre, alle ore 20.45 in diretta Facebook, il circolo Arci Prometeo ospita la presentazione del libro “Faenza. La cava degli assassini”, edito da Il Ponte Vecchio e in questi giorni nelle librerie. Il volume, attraverso la dettagliata descrizione di 13 fatti di sangue che hanno avuto luogo nel territorio faentino, illustra come la storia della città sia costellata di episodi criminosi (molti dei quali ancora insoluti) che hanno a che fare con intrighi politici, disagio sociale e vendette personali. I tre autori del testo, Gabriele Albonetti, Mattia Randi e Carlo Raggi, spiegheranno agli spettatori come è nata l’idea del libro, che segue le vicende della città dall’antica Roma alla modernità. Per avere qualche anticipazione, abbiamo intervistato Mattia Randi, giovane ricercatore già autore con Albonetti del libro Le epidemie nella storia di Faenza. 

Intervista a Mattia Randi, autore di “Faenza: la cava degli assassini”

Come è nata l’idea di questo libro che scava nei delitti di sangue della nostra città?

Il libro nasce da una proposta che l’editore il Ponte Vecchio di Cesena ci fece più di un anno fa: inaugurare con Faenza una collana sulla storia “nera” delle città romagnole. Infatti a questo lavoro – che è il primo – già ha fatto seguito “Cesena criminale”, e arriveranno, nel corso dei prossimi anni, credo, anche Ravenna, Forlì e Rimini. La pandemia e la quarantena ci hanno bloccato in casa per mesi: era impossibile consultare i documenti negli archivi, e abbiamo dovuto rimandare a quando saremmo potuti tornare tra le carte antiche. Quest’estate allora abbiamo potuto riprendere quel discorso interrotto, riuscendo a concludere questo testo che oggi consegniamo al lettore.

Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una ricerca macabra voyeuristica. Qual è invece il valore storico, o comunque culturale, che sottende il vostro lavoro?

Il tema del male e del ruolo che esso gioca nella storia umana è un tema molto antico. Cosa anima la mano che brandisce un coltello? Cosa spinge a premere un grilletto? La cosa che ci ha colpito è la violenza diffusa, specie sino al milleottocento. Poi, il cambio: i partiti di massa e i movimenti sociali assorbono gran parte della conflittualità sociale. I delitti, per un certo periodo, si rarefanno, vengono confinati nella sfera delle passioni private, ma la violenza di natura “pubblica” poi torna nel Novecento con lo squadrismo, le due guerre mondiali e con lo stragismo e il terrorismo.

L’indagine storica su 13 fatti di sangue di Faenza

Come avete condotto le vostre ricerche affrontando tempi storici anche molto diversi?

Ognuno di noi tre, io, Gabriele e Carlo si è preso carico di un periodo storico. E la ricerca, a seconda dei tempi, va condotta in modo diverso. Fino allo Stato Unitario le fonti informative sono più “rarefatte”, quindi è stato necessario lavorare sui documenti “storici” più che sulla cronaca. Poi, avvicinandosi a noi, è la cronaca la prima fonte: i giornali hanno narrato, raccontato e talvolta svelato i misteri. Con un pubblico sempre più attento ai fatti di sangue, ai delitti e agli omicidi, che chiedeva ai giornalisti di essere informato sui fatti che accadevano nella città. In realtà c’è un filo conduttore dietro questi due metodi (quello storico e quello del “cronista”): Carlo Ginzburg ha paragonato il lavoro dello storico a quello di Sherlock Holmes. Lo storico infatti prosegue per indizi, e anche quando ha poche informazioni deve comunque trarre il massimo da quei dati. Queste tredici storie si prestano allora a essere indagate alla Sherlock Holmes: sia come investigatori, sia come storici.

Nel vostro libro vi occupate solo di determinati delitti e ne lasciate fuori altri, come quelli per es. di stampo religioso o politico. Come mai questa decisione?

Gaspare Mattioli (1806 – 1843) Uccisione di Galeotto Manfredi. Pinacoteca Comunale Faenza.

È stata una scelta consapevole ma controversa. Ci sono fatti di sangue per i quali non è sempre facile distinguere i moventi. Pensiamo a Francesca Bentivoglio e all’uccisione del marito Galeotto Manfredi: omicidio passionale o politico? La scelta non poteva che essere discrezionale e ha voluto “premiare” tredici racconti, alcuni tra i più famosi, altri colpevolmente dimenticati. Se ne potevano scegliere anche altri e per questo vorremmo lanciare un “contest”: sappiamo che ci sono tante ulteriori storie “noir” nella storia della città. Ci piacerebbe allora in futuro scrivere un secondo volume, raccogliendo altre vicende che non sono state incluse in queste pagine. Si accettano e si sollecitano anche delle segnalazioni dai lettori.

È reale l’immagine di una Romagna rissosa dedita ai delitti o la ricerca storica che avete affrontato sfata questo stereotipo?

Certamente per cinque-sei secoli, dal 1200 al 1800, lo stereotipo della Romagna violenta, rissosa e vendicativa ha tenuto banco nell’opinione pubblica nazionale con qualche ragione. Per tutto il Medioevo la Romagna è stata una terra in armi e la guerra mercenaria delle Compagnie di ventura ha rappresentato un secondo lavoro per migliaia di giovani contadini e montanari. La cosa è diventata endemica per tutti i trecento anni della dominazione pontificia, segnati dal brigantaggio e da una violenza a bassa intensità, e si è trascinata anche nei primi decenni dello Stato unitario. Era difficile separare la violenza criminale e il banditismo da forme improprie di ribellione alla miseria. Solo a fine Ottocento la situazione cambia e Olindo Guerrini può sdegnosamente rifiutare per la Romagna la nomea di “Cava degli assassini”, che è il titolo del nostro libro.

Tra i delitti faentini che raccontate, ce n’è uno in particolare che emerge per la sua particolarità o che è stato dimenticato dalla memoria storica della città quasi come a farne un tabù?

Ne citerei due: l’assassinio del Conte Filippo Ferniani nel 1870, che inspiegabilmente finora non aveva mai avuto più di una riga nei libri di storia locale, e la storia, nel primo Novecento, del serial killer faentino, che è stata viva nella memoria dei nostri vecchi ma poi dimenticata. Ambedue queste vicende trovano ampia narrazione e nuovi inediti sviluppi, nei racconti che ne fanno Gabriele Albonetti e Carlo Raggi. Per parte mia mi sono divertito a raccontare le storie più antiche: quella che mi ha intrigato di più è la discussa uccisione del pittore Manzoni nella seconda metà del Seicento, una storia dove prevale il gioco degli specchi, fra mille dubbi sull’identità della vittima e dell’assassino.

Samuele Marchi

Giornalista, sono nato a Faenza e dopo la laurea in Lettere all’Università di Bologna frequento il master in 'Sviluppo creativo e gestione delle attività culturali' dell’Università di Venezia/Scuola Holden. Ho collaborato con diverse testate locali e nazionali come Veneto Economia, Alto Adige Innovazione, Cortina Ski 2021, Il Piccolo, Faenza Web Tv. Ho partecipato all'organizzazione del congresso nazionale Aiga 2015 e del Padova Innovation Day. Nel 2016 ho pubblicato il libro “Un viaggio (e ritorno) nei Canti Orfici” (Carta Bianca editore) dedicato al poeta Dino Campana. Amo i cappelletti, tifo Lazio e, come facendo un puzzle, cerco di dare un senso alle cose che mi accadono attorno.

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