La crisi umanitaria dei profughi Rohingya, tra emergenza e (in)stabilità: report di un faentino

È stato nell’agosto del 2018, pochissimo tempo fa. Mi trovavo in Bangladesh per portare a termine un percorso di ricerca accademica. Spinto da un’insolita curiosità e desiderio di conoscere, decido insieme a un amico di andare a visitare il campo profughi al confine con Myanmar, dove si consuma attualmente una delle più gravi crisi umanitarie degli ultimi decenni.
La popolazione Rohingya è una piccola minoranza in Myanmar che, sin dai primi anni Settanta, subisce una violenta discriminazione a sfondo etnico, linguistico e religioso. Incendi alle abitazioni, sciacallaggi, retate da parte delle autorità, maltrattamenti e omicidi hanno decimato questa porzione di popolazione. I brutali atti di violenza e repressione si sono tradotti in una vera e propria fuga di massa dei Rohingya dal paese. Dagli anni Settanta a oggi sono fuggiti più di un milione di persone. Nel mese di agosto 2017, l’ultima violenta repressione da parte delle autorità militari del Myanmar ha costretto centinaia di migliaia di persone a scappare ancora, generando una improvvisa ondata migratoria tra le più drammatiche della storia.

Un campo profughi in Bangladesh che accoglie rifugiati dal Myanmar

Il primo luogo sicuro per chi riesce a fuggire da Myanmar è il Bangladesh, in particolare l’area di Cox’s Bazar del dipartimento amministrativo di Chittagong. Cox’s Bazar è una delle mete più frequentate per le sue affascinanti spiagge che si affacciano sul Golfo del Bengala. È difficile pensare che a poche decine di chilometri da quelle spiagge 925.700 persone siano costrette a vivere in condizioni precarie (IOM, 2019). Grazie a un contatto locale io e il mio amico riusciamo ad accedere a una delle aree del campo profughi (Kutupalong area). Dopo aver percorso qualche centinaia di metri con un furgoncino, continuiamo il percorso a piedi: è difficile spiegare quello che provo al primo impatto. Il campo è immenso, non si riesce a scorgere la sua fine guardando l’orizzonte, gli shelter dove rifugiano le famiglie si moltiplicano tra le colline. Un’altra cosa che mi ha impressionato particolarmente è il numero di bambini e bambine nelle zone che visitiamo. Sono tantissimi e superano di gran lunga il numero degli adulti e anziani presenti nel campo. Si possono quindi immaginare i problemi connessi alla salute e l’accesso alle cure primarie per i più piccoli indifesi.

“Ci sono famiglie che vivono all’interno del campo da più di 20 anni”

La cooperazione multilaterale e bilaterale è presente da tempo: l’Onu e le agenzie affiliate (in particolare l’Unhcr a cui sono demandate diverse funzioni di gestione), l’Unione Europea e le agenzie di aiuto governative. Nel nostro percorso siamo accompagnati da un membro di una Ong locale che ha creato un dispensario sanitario con lo scopo di fornire assistenza medica ai bambini e alle madri del campo. Ci spiega che, sebbene il flusso di profughi più drammatico sia avvenuto ad agosto 2017 con più di 700mila arrivi in pochi giorni (ECHO 2018, IOM 2019), innescando un vero e proprio focolaio di crisi umanitaria, ondate migratorie dei Rohingya si sono verificate già negli anni Settanta e negli anni Novanta. Per questo è comune incontrare persone che vivono all’interno del campo addirittura da più di vent’anni e che si sono quindi mobilitate per trovare un lavoro proprio al suo interno. Penso sia questo il punto sul quale è opportuno riflettere: questa situazione permane da diversi decenni ed ecco perché parlo di stabilità, se così si può affermare. I profughi difficilmente riusciranno ad abbandonare il campo, molti ci hanno già trascorso decine di anni di vita. Tra le stradine che percorrono gli stabilimenti le persone hanno avviato da tempo piccole attività generatrici di reddito; si possono notare scuole, chiese, moschee, appositamente costruite dalle agenzie di aiuto. Il campo profughi è stato equipaggiato con servizi di base quali latrine, pompe per l’acqua potabile, ponti in legno tra una zona e l’altra. Il fatto che molte persone vivano da così tanto tempo dentro il campo e che non possano godere di alcune tutele fondamentali è riconducibile alla questione del mancato riconoscimento legale. Il governo del Bangladesh non ha riconosciuto alla stragrande maggioranza dei Rohingya lo status di rifugiati e per questo motivo è negato loro l’accesso formale all’istruzione, alla salute e al lavoro (ECHO 2018). Il risultato è allora la presenza di circa un milione di persone che dipende solamente dai meccanismi di aiuto della cooperazione internazionale.

La testimonianza di Francesco Casalini: “Difficile riassumere quello che ho visto in una giornata”

Continuando a piedi il percorso incontriamo un ragazzo sulla trentina che collabora da tempo con il dispensario sanitario. Ci racconta che è arrivato al campo negli anni Novanta con tutta la sua famiglia e che, fortunatamente, vive ancora con tutti i parenti. Altri sono stati meno fortunati perché sono giunti al campo da soli dopo aver perso tutta la famiglia durante la fuga dal Myanmar e sono ancora in cerca dei propri cari, sperando siano riusciti a salvarsi. Queste e tante altre esperienze di vita si intrecciano nell’area di Kutupalong. È difficile riassumere quello che ho visto e provato in una sola giornata immerso in una realtà del genere. Non ci si rende conto realmente che cosa possa significare vivere in una situazione di crisi finché non ci si è dentro e la si vive in prima persona. Non solo i Rohingya vivono in condizioni difficili in quell’area. Trattandosi di una zona costiera e inserita tra le foci dei fiumi Gange e Brahmaputra, la porzione di territorio tra il Bangladesh e Myanmar è estremamente vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico: alluvioni, frane e cicloni mettono in serio pericolo anche i cittadini bengalesi che abitano quelle zone. Un altro elemento di instabilità viene quindi ad aggiungersi.

Dopo aver abbandonato il campo nel pomeriggio provo a riordinare i pensieri e le immagini di quello che avevo vissuto per alcune ore. La crisi dei Rohingya è drammatica per i numeri che la riguardano, in primis: 712.700 arrivi dal 25 agosto 2017; 925.700 profughi nell’area di Cox’s Bazar; 1,2 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza. Cosa succederà nei prossimi mesi è difficile da prevedere. L’emergenza umanitaria è ormai di fatto consolidata, le persone bisognose di aiuto sono moltissime, in particolare i bambini. Il rischio di questa crisi è quello di finire nel dimenticatoio, come tante altre purtroppo. La cooperazione internazionale è chiamata a fare il suo dovere, essendo di fronte a un’emergenza drammatica con numeri difficili da gestire. Alla popolazione dei Rohingya deve essere garantita una vita dignitosa e senza discriminazione alcuna.

Francesco Casalini

Per approfondimenti:

https://ec.europa.eu/echo/where/asia-and-pacific/bangladesh_en

https://bangladesh.iom.int/sites/default/files/documents/11-03-19/IOM%20Rohingya%20Crisis%20Response%20-%20External%20Sitrep%20-%20February%202019.pdf

https://www.oxfam.org/en/pressroom/pressreleases/2017-09-08/oxfam-responds-urgent-needs-people-fleeing-myanmar-conflict

https://unhcr.maps.arcgis.com/apps/Cascade/index.html?appid=5fdca0f47f1a46498002f39894fcd26f

https://www.panorama.it/news/esteri/birmania-chi-sono-rohingya-minoranza-piu-perseguitata/

Samuele Marchi

Giornalista, sono nato a Faenza e dopo la laurea in Lettere all’Università di Bologna frequento il master in 'Sviluppo creativo e gestione delle attività culturali' dell’Università di Venezia/Scuola Holden. Ho collaborato con diverse testate locali e nazionali come Veneto Economia, Alto Adige Innovazione, Cortina Ski 2021, Il Piccolo, Faenza Web Tv. Ho partecipato all'organizzazione del congresso nazionale Aiga 2015 e del Padova Innovation Day. Nel 2016 ho pubblicato il libro “Un viaggio (e ritorno) nei Canti Orfici” (Carta Bianca editore) dedicato al poeta Dino Campana. Amo i cappelletti, tifo Lazio e, come facendo un puzzle, cerco di dare un senso alle cose che mi accadono attorno.

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