Il Buco di Galder Gaztelu-Urrutia

“L’abbondanza delle cose, anche se buone, fa che non siano pregiate, mentre la scarsezza, magari delle cattive, conferisce loro certo valore.”

Don Chiosciotte della Mancia (Prologo al lettore)

 

In una realtà fittizia, una prigione ospita un numero indefinito di detenuti attuando su di loro un esperimento sociale semplice e terrificante. L’edifico è strutturato come una torre verticale composta a piani. In ogni piano alloggiano due detenuti che, una volta al giorno, possono mangiare tramite l’abbassamento di un’unica piattaforma imbandita di leccornie che parte dal primo piano (il piano 0, la cucina) fino ad arrivare in fondo alla struttura. Naturalmente, la possibilità di nutrirsi dei prigionieri è direttamente proporzionale al numero di piano in cui vengono collocati. Se ci si ritrova al secondo piano, si potrà godere di un pasto pieno e privilegiato. Se ci si ritrova al piano numero 100, le scorte di cibo difficilmente arriveranno e si perde velocemente la speranza di sopravvivere. I detenuti vengono scambiati casualmente di piano una volta al mese.

Troppa forma per poca sostanza? Il fattore filosofico è davvero presente o è solo accennato?

Il film presenta una molteplicità di tematiche, trattate spesso superficialmente, che passano dall’ideologia rivoluzionaria marxista alla rappresentazione metaforica della figura biblica del messia. Dall’impossibilità di comunicare pacificamente tra esseri umani, alla vendetta che supera quasi sempre la misericordia. Per non parlare della contrapposizione (simboleggiata tramite la citazione a Don Chisciotte contrapposto al coltello “Samurai Plus”) tra uomini di cultura e gli uomini di violenza. Si nota un atteggiamento da parte della sceneggiatura forse un po’ troppo arrogante, come se ci fosse stato un desiderio di raccontare un numero eccessivo di argomenti di grandissima importanza morale e filosofica, ma a discapito di una narrazione che risulta scarna e incompleta. Il tutto condito da una conclusione finale davvero deludente. Un Inception che non sorprende ma irrita.

Il tema principale resta senz’altro la continua lotta di classe tra ceti sociali.

Lo sfruttamento costante e inarrestabile delle società elevate rispetto a quelle meno adagiate. Il lungometraggio risulta sinceramente spietato, mostrando quanto non sia rilevante se chi ora vive nel lusso un tempo ha dovuto soffrire la fame. I sentimenti di egoismo e riluttanza nei confronti di chi sta sotto di te (i più deboli) si ripetono come uno schema mese per mese e non danno spazio a chi, motivato da intenzioni onorevoli tenta, inutilmente, di cambiare il contesto senza usare la forza fisica. La rivoluzione deve avvenire prima del pensiero di chi governa (un’ entità indefinita chiamata “l’amministrazione”) e perché ciò avvenga bisogna mandare un messaggio. Anche questa soluzione, nelle fasi finali della pellicola risulterà agli occhi dello spettatore un incomprensibile buco di sceneggiatura.

Un impianto tecnico semplice ma solido nella sua intenzione narrativa.

La fotografia claustrofobica del film passa brillantemente da un’oscurità interrotta solo da delle luci al neon senza vita ad una predominanza del rosso sangue nelle ore notturne. Ciò conferisce al lavoro un tono spento, surreale e demoralizzante, che non regala momenti di leggerezza e che lascia allo spettatore un senso di desolazione opprimente. L’atmosfera generale ha delle connotazioni ben visibili con la trilogia del Cubo, con dei richiami alla Divina Commedia di Dante e alla poetica del regista coreano Bong Joon-Ho, autore del premiatissimo “Parasite”.

Successo di visualizzazioni per l’ennesimo prodotto originale Netflix.

In ogni caso, la suddetta casa di produzione statunitense riesce ancora una volta a cogliere l’attenzione del pubblico approfittando di questo momento di isolamento forzato con un film che riprende tematiche che, mai come ora, sentiamo vicine al nostro vivere.
Un esperimento di distribuzione europea il quale potrà non avere tutta la profondità erroneamente attribuitagli ma che sicuramente ha saputo posizionarsi nel momento storico ideale. Carpe Diem.

 

“Mangia, piccolo Michel. Mangia. Se tu non mangi, tu non puoi morire”
Ugo Tognazzi in “La grande abbuffata” di Marco Ferreri.

 

Recensione a cura di Alex Bonora

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