Alessandro Bucci: “La prossima amministrazione dovrà concentrarsi sul centro e sulle aree produttive”
Quali sono le criticità di Faenza a livello architettonico e urbanistico? Su cosa dovrà puntare la futura amministrazione nei prossimi cinque anni? Per rispondere a queste e ad altre domande abbiamo sentito l’architetto Alessandro Bucci, che ci ha aiutati a comprendere meglio problemi e opportunità del nostro territorio.
Intervista all’architetto Alessandro Bucci
Architetto Bucci, negli ultimi anni lei si è occupato del recupero di Casa Manfredi. Ci può dire qualcosa di più di questo progetto?
Per parlarne bisogna partire da un discorso più generale sul centro storico. Si sente spesso dire che il centro faentino non è attrattivo ed è considerato un ripiego, perché la gente vuole vivere in periferia, dove c’è possibilità di trovare una casa con giardino. La mia esperienza mi porta a vederla in maniera diversa: il centro storico non è abbandonato perché è un contesto che non piace, a non piacere è la mancanza di qualità e servizi. In Italia la casa è considerata qualcosa che ci rappresenta, perciò le persone vogliono vivere in ambienti belli, luminosi, accoglienti e con una serie di servizi attorno. All’interno del nostro centro storico ci sono tanti spazi bellissimi ma che non sono mai stati ristrutturati. Il risultato è un’offerta scadente per quanto riguarda gli immobili messi sul mercato, a fronte di persone esigenti che cercano case di un certo livello. È necessario coniugare questa domanda di qualità a un’offerta adeguata per rendere il centro storico attrattivo e competitivo. Case Caldesi rappresenta il sunto di questi ragionamenti, essendo un palazzo di estrazione nobiliare strategicamente importante. Certo, è stato trascurato per molto tempo, quindi i costi di ristrutturazione, già molto alti, sono cresciuti con il passare degli anni per via dell’incuria. Il suo posizionamento, però, è ottimo e ha una magnifica corte interna. Di tutto il complesso, circa 150 metri quadrati saranno lasciati alla biblioteca, come previsto dal bando.
Casa Manfredi, insieme a Palazzo Podestà, sono un esempio di recupero di edifici storici in condizione di degrado a Faenza. Quanti e quali sono i luoghi storici faentini nelle stesse condizioni?
Case Caldesi è un esempio virtuoso, ma non vorrei che passasse il messaggio che gli spazi interessanti nel centro storico esistono solo se paragonabili a un palazzo di questo tipo. Ci sono una miriade di edifici da recuperare, forse di livello apparentemente inferiore ma dalle potenzialità enormi, da reinserire all’interno di un circuito di compravendita e di utilizzo sia a livello pubblico che privato. Un esempio su tutti è la Chiesa dei Servi, un luogo con un ampio margine per un recupero di alto livello. Per farlo, però, è necessario scardinare un po’ il pensiero dominante: nel momento in cui le risorse pubbliche sono limitate, bisogna dare ai privati la possibilità di inserire la loro capacità imprenditoriale all’interno degli spazi che la città offre. Questo significa non storcere il naso nel momento in cui i progetti per immobili così importanti vanno in direzioni di utilizzo anche potenzialmente commerciale, con una riqualificazione che non sia prettamente indirizzata a un uso culturale alto. Spesso l’alternativa alla ricerca di un uso virtuoso di tali luoghi è l’inutilizzo, togliendo loro la capacità di essere inseriti in un circuito di uso e abbandonandoli alla fatiscenza. Il privato deve potersi muovere, il pubblico deve creare le condizioni per valutare proposte allettanti, con un’attenzione alla qualità. Se guardiamo all’Europa, vediamo edifici interessanti che sono stati destinati a usi diversi da quelli per i quali erano stati originariamente pensati.
Però, a questo proposito, si sente spesso dire che i vincoli sono talmente tanti e talmente stringenti che alla fine i privati rinunciano a investire negli immobili dall’alto valore storico.
Chiaramente, le leggi non vanno aggirate, ma possono essere interpretate e gestite: la differenza la fa chi ha in mano i destini di questi luoghi. Molte volte ho collaborato con funzionari propositivi, dalla mentalità aperta e disposti all’ascolto di idee differenti, e il nostro dialogo ha di fatto aperto vere e proprie autostrade. Altre volte, invece, ho dovuto affrontare questi argomenti con persone ottuse e chiuse. In quei casi, anche imbiancare un portone di legno diventa una cosa complicatissima. La differenza la fanno le persone: per questo, quando saremo chiamati a decidere chi dovrà guidare la nostra città, auspico che si scelga qualcuno con la mentalità aperta, in grado di accogliere l’innovazione e le proposte, magari provenienti da mondi lontani, ma che possono rappresentare dei passi in avanti per la città.
È di poche settimane fa lo scontro tra Pd e ambientalisti sulla questione urbanistica: quali sono le problematiche di Faenza a livello urbanistico? Come si coniugano il rispetto per l’ambiente e le nuove urbanizzazioni?
Per affrontare il tema bisogna inquadrarlo in una prospettiva più ampia. Una ventina di anni fa, Faenza ha partorito un piano particolareggiato di dimensioni molto ampie, che ha individuato la possibilità di trasformare una grande quantità di aree inizialmente agricole. Questo piano ha acceso le speranze dei proprietari terrieri per facili guadagni, ma allo stesso tempo ha richiesto loro il pagamento di una tassa di tipo diverso su questi terreni. Si è creata una dinamica per cui da una parte c’erano le aspettative e gli impegni dei privati, dall’altra si è registrata la crisi del settore edilizio, la popolazione è rimasta più o meno stabile e a Faenza non sono arrivati grandi gruppi imprenditoriali. Il risultato è stato la mancata attuazione di molte delle idee presenti all’interno del piano regolatore del ’96. In seconda battuta, si è aggiunto un vincolo molto forte della Regione (legge 24/2017, ndr.), che ha voluto stringere le maglie delle potenziali espansioni urbane: tutte le aree rimaste fuori dal perimetro della città urbanizzata hanno perso la propria capacità edificatoria tutta in una volta, ma i pagamenti delle imposte sui terreni edificabili sono andati avanti. L’amministrazione comunale ha cercato di creare un equilibrio tra le aspettative dei privati, e la legislazione regionale, mediando tra le diverse esigenze. Secondo me si è mossa correttamente nei confronti dei privati, che hanno rischiato di perdere diritti che gli sono stati garanti per tanto tempo. Detto ciò, parlando più in generale, non possiamo pensare che l’espansione della città sia infinita, soprattutto considerando la stabilità delle attuali condizioni, che non credo muteranno nel corso dei prossimi anni. In ogni caso, condivido il pensiero di definire cos’è campagna e cos’è città, si deve stabilire il perimetro della città e pensare che quello che c’è dentro abbia delle regole diverse da quello che c’è fuori.
“Per la mobilità è necessario integrare diversi aspetti”
Dal punto di vista della mobilità quali sono oggi i punti critici di Faenza? Cosa si dovrebbe fare per risolverli?
Un servizio capillare di trasporto pubblico in grado di servire un po’ tutte le zone se lo possono permettere città metropolitane o comunque di grandi dimensioni. A Faenza il pubblico non può risolvere tutti i problemi della città. Qui da noi si dovrebbero coniugare diversi aspetti: una volta definito il perimetro cittadino, bisognerebbe creare un sistema ramificato di piste ciclabili (la bici in Romagna è ancora un mezzo molto usato) e un trasporto pubblico che leghi tre o quattro punti di interesse principali, con la stazione come zona di interscambio. Comunque, è innegabile che l’uso dell’auto sia ancora fondamentale e non va demonizzato. A Faenza è lodevole l’utilizzo del green-go bus e l’uso di grandi parcheggi come zona d’interscambio per chi viene da fuori e non vuole arrivare in centro con la macchina.
Oggi sentiamo spesso il termine “smart city”, ossia una città in cui le nuove tecnologie vengono usate per migliorare i servizi pubblici e la qualità della vita dei cittadini: è una visione che può essere realizzata anche in una città di piccole dimensioni come la nostra?
Il tema è molto attuale, a causa del corona virus tutti noi stiamo sperimentando forme più o meno smart di lavoro. Prima di tutto, bisogna parlare di propensione delle persone a utilizzare certi livelli di tecnologia. Bisogna tener conto anche del fatto che certi strumenti non possono sostituire la presenza fisica delle persone, e questo lo stiamo vivendo anche noi come studio di architettura. Il rischio è che certe tecnologie diventino dei palliativi per farsi un po’ di pubblicità, quando poi il loro l’utilizzo finisce per complicare il lavoro delle persone. È smart ciò che ti facilita, teniamolo a mente. Inoltre, la nostra città è abitata da una popolazione che ha un’età medio alta: l’argomento è molto interessante ma se lo sdoganiamo come risoluzione dei problemi secondo me lo affrontiamo nella maniera sbagliata. Noi possiamo utilizzare delle tecnologie che rendono più facili certi comportamenti (come l’app di Movs per pagare il parcheggio) ma diventa difficile immaginare che la città possa muoversi tutta attraverso un sistema tecnologico. A volte la tecnologia diventa un appesantimento più che una soluzione: si deve trovare il giusto equilibrio.
Sui temi dell’architettura e dell’urbanistica, su cosa dovrà lavorare la futura amministrazione?
Si potrebbe fare un censimento delle aree produttive del faentino che non sono utilizzate e poi pensare a dei sistemi per rimettere in circolo questi spazi. Ridare loro vita anche dal punto di vista produttivo significherebbe maggiori opportunità di lavoro, far star meglio le persone e rendere la città più attrattiva, creando un circolo virtuoso. Attenzione, però, a pensare che l’unica strada sia la valorizzazione solo di tecnologie di alto livello: la manifattura e l’artigianato hanno livelli produttivi apparentemente più bassi ma sono da tenere vivi. Noi ci fregiamo ancora del titolo di città della ceramica ma io credo che la ceramica vada aggregata attorno a qualcosa che faccia massa critica. Ben vengano manifestazioni bellissime come Argillà ma creiamo anche le condizioni per cui i ceramisti possano trovare dei luoghi interessanti permanenti, magari utilizzando quelli di cui ti parlavo prima. Immaginiamo dei progetti di ampio respiro legati a temi che sono caratterizzanti della città: l’agroalimentare, la ceramica, le eccellenze produttive. Fatto questo, l’urbanistica e la qualità della vita si innalzeranno di pari passo e in maniera consequenziale.
Matteo Nati