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Taxi Teheran

Taxi Teheran

 di Jafar Panahi

 

Una telecamera fissa sulle strade trafficate e industrializzate di Teheran, in Iran. Una sensazione di chiusura, avvertita a pelle, mentre il taxi condotto dal regista si insinua in vicoli e sobborghi apparentemente non lontani dalla modernizzazione occidentale. Si apre così Taxi Teheran, nuova opera dell’autore iraniano Jafar Panahi, con la quale si è aggiudicato l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2015. Un premio che sembra andare al di là dei soli meriti cinematografici: piuttosto, si può azzardare a parlare di un trofeo al coraggio e all’amore che questo regista dimostra per una delle arti più censurate all’interno del suo paese natale. Panahi, a causa delle precedenti opere che trascendevano le rigide regole iraniane (che vanno dal non mostrare alcuna relazione uomo-donna all’escludere qualsiasi violenza presente in una pellicola), era stato condannato a ben sei anni di reclusione e gli era stato proibito di girare o scrivere qualsiasi film. Ostacolato dal governo iraniano, Panahi non si è dato per vinto: ha piazzato una telecamera all’interno di un taxi, spacciandosi come autista in servizio, e ha iniziato le “riprese” del suo nuovo film.

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Taxi Teheran si presenta come una sorta di documentario, un report sui pensieri dei cittadini Teheraniani negli ambiti tabù della società: la politica, la criminalità, la censura. In tanti si fanno portavoce delle paure non confessate che aleggiano tra i cittadini; ognuno sale nel taxi offrendo la sua versione, raccontando, attraverso un estratto della loro quotidianità, cosa significa vivere in una società oppressa da rigidi imposizioni, che porta molti a temere l’obiettivo di una macchina fotografica o la fotocamera di un cellulare. In Iran, dove tantissimi blockbuster o serie televisive vengono bandite, le strade brulicano di veri e propri “spacciatori di audiovisivi”, mentre giovani sognatori aspirano a diventare come Panahi, riconosciuto quasi da tutti i passeggeri e non solo.

Ma è la voce innocente e quanto mai sincera della nipotina del regista a dire più di quanto altri non avrebbero potuto fare: nel preparare il suo progetto (un cortometraggio), deve infatti fare i conti con i medesimi problemi riscontrati dallo zio. Una pellicola non deve essere accusata di “sordido realismo”, ma come girare un film che non contenga cattive azioni, argomenti proibiti o la violenza tipica di una metropoli oppressa e fondamentalmente povera? Come fare quando scene di questo calibro si presentano in ogni momento ad un’occhiata fuori dal finestrino? Sono tante le domande che la bambina intelligentemente si pone, tante altre sono le risposte vaghe e volutamente lasciate a metà di Panahi. Come quest’ultimo dice, per trovare un soggetto adatto alla scrittura di un buon film, è sufficiente guardarsi intorno, uscire, trovare un’ispirazione in ciò che ti circonda. È ciò che fa sua nipote, filmando un bambino che raccoglie soldi da terra e svuota bidoni della spazzatura. Ed è ciò che fa anche Panahi stesso, nel momento in cui installa la telecamera sul cruscotto del taxi e i soggetti prendono vita da soli, raccontando e raccontandosi, narrando una storia di società contemporanea e di paura di tutto ciò che è considerato proibito.

Taxi Teheran: un omaggio al cinema

Il film stesso è da considerarsi un prodotto bandito, per via della sua natura clandestina e poiché caratterizzato da “sordido realismo”. Con un finale sorprendente e assolutamente veritiero, che si protrae in una lunga sequenza immobile, il film si conclude lasciando lo spettatore allibito, come se si sentisse parte di quella società. Non ha e non può avere titoli di coda, ma solo un omaggio “in onore del cinema” e di tutto ciò che questa meravigliosa arte può riuscire a fare.

 Alessandro Leoni

Il film è in proiezione al Cinema Sarti di Faenza, oltre che in alcune zone della provincia di Ravenna.

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