“E i ragazzi come stanno?” Intervista a Elena Attanasio, neuropsichiatra infantile a Faenza
Salute e scuola non sono mai in contraddizione: non esiste l’una senza l’altra. I ragazzi, se non stanno bene, a scuola non ci vanno. Parlando di abbandono scolastico a Faenza qualche settimana fa abbiamo notato infatti tra le segnalazioni di gennaio almeno venti ragazzi e ragazze già segnalati alla neuropsichiatria infantile per disturbi di ansia, attacchi di panico e persino autolesionismo. Abbiamo voluto allora approfondire la relazione che questo ha con la dispersione e con la scuola, per capire come stanno davvero gli studenti faentini alla fine di questi due anni scolastici di pandemia. Ci ha spiegato cosa sta accadendo la dottoressa Elena Attanasio, dirigente responsabile dell’U.O. di Neuropsichiatria infantile della Ausl di Ravenna.
Ansia, depressione e autolesionismo: 26 richieste prioritarie da gennaio a maggio
Come possiamo descrivere questo aumento di casi nel distretto faentino?
Un dato eloquente è il numero di richieste prioritarie che riceviamo da parte dei medici di base; solitamente in un anno ne contiamo 15 o 16 e quest’anno da gennaio a oggi (n.d.r. lunedì 17) siamo già a 26 richieste di intervento immediato. Parliamo di ragazzi tra i 12 e i 17 anni e ne vediamo molti di seconda e terza media. Un’età sicuramente molto colpita è quella del biennio delle superiori che non ha avuto modo di ambientarsi nella nuova scuola, mentre i bambini delle elementari, che hanno un rapporto più materno con le insegnanti e sono meno consapevoli, hanno attutito meglio il colpo. Quello che però lascia davvero attoniti è che nella maggior parte dei casi il malessere descritto dai genitori è lo stesso, o quanto meno simile, per tutti i ragazzi: molti di loro fanno fatica ad andare a scuola o non ci vanno più, soffrono di disturbi di ansia e di depressione fino a ricorrere all’autolesionismo e ad avere veri e propri pensieri sucidi. A questi si aggiungono i disturbi del sonno e i problemi alimentari, spesso sotto forma di disturbi del comportamento alimentare con alla base un disturbo d’ansia o depressivo.
Quali sono secondo lei le cause?
E’ opportuno fare una distinzione tra la primavera dell’anno scorso e cosa è accaduto invece a ottobre di quest’anno. Se infatti nel primo lockdown c’è stata una maggior tenuta da parte dei ragazzi e delle famiglie, questo autunno il ritorno alla dad e alle chiusure ha fatto esplodere le fragilità psichiche dei più giovani. Si tratta infatti di ragazzi che prima del covid erano in piena salute, con ottime reti di amici e magari anche una buona autostima, ma che presentano delle predisposizioni genetiche a questo tipo di problemi che emergono in dipendenza da fattori ambientali come quelli che hanno caratterizzato questa pandemia. Siamo infatti di fronte a uno smarrimento diffuso, uno sbandamento collettivo che coinvolge e compromette l’autostima dei ragazzi, instilla in loro un senso di vergogna e una paura del giudizio che si manifestano subito ad esempio con l’oscuramento della webcam durante le lezioni in didattica a distanza.
La scuola dovrebbe personalizzare i percorsi e abbassare gli standard
Qual è il ruolo della scuola in questo contesto?
Un ragazzino per il quale la scuola è un importante fattore ansiogeno può ricevere la richiesta di Bes, cioè di bisogni educativi speciali e quindi avere diritto a una personalizzazione del percorso scolastico, cosa che però è molto difficile con numeri troppo alti di alunni per classe. Dunque a volte queste richieste finiscono nelle mani di consigli di classe pronti e attenti, ma a volte la scuola non è preparata. Questa incertezza e questa disparità di un’istituzione scolastica che fa ancora fatica ad accettare un rendimento più basso non semplificano di certo la situazione: la concentrazione di verifiche e interrogazioni nelle ultime settimane di scuola chiaramente non fa diminuire l’ansia negli studenti. Servirebbero probabilmente spazi appositi, centri per l’aiuto scolastico, dove i ragazzi possano incontrare adulti che non siano troppo preoccupati del voto e al tempo stesso non siamo troppo coinvolti emotivamente, come invece accade per i genitori. Una sorta di doposcuola con la funzione di far risocializzare in modo graduale. La pausa estiva di certo aiuterà ma a settembre alcune situazioni miglioreranno e altre peggioreranno: un brusco ritorno alla normalità intesa come attività didattica a pieno regime potrebbe far aumentare molto questo malessere. La scuola deve farsi trovare preparata perché ha un ruolo centrale nella vita di questi ragazzi.
Molti affiggono su questi ragazzi l’etichetta “generazione Covid”: secondo lei è giusto chiamarli così?
Non mi piace affatto questa espressione. I ragazzi non vanno etichettati in senso generale. Hanno anzi bisogno di uno sguardo speciale su di sé da parte degli adulti di riferimento ed è un grave errore considerarli un tutt’uno. Bisogna evitare l’omologazione: l’adulto ha il compito di guardare ognuno di loro in modo diverso perché ognuno di loro è diverso. L’espressione “generazione Covid” è triste e sbagliata dal momento che ci troviamo tutti, anche noi adulti, a dover affrontare questa pandemia.
Per la rubrica “Per chi suona la campanella…” a cura di M. Letizia Di Deco