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Macbettu di Alessandro Serra: la lingua sarda per scavare nella natura umana

Un’operazione ambiziosa quanto ricca di significato: utilizzare la lingua sarda per mettere in scena uno dei capolavori di Shakespeare e del teatro mondiale. Spettacolo vincitore del prestigiosissimo Premio Ubu 2017 quale “migliore spettacolo dell’anno”, giunge al Teatro Masini di Faenza Macbettu, spettacolo del talentoso regista Alessandro Serra. La pièce è prodotta da Sardegna Teatro in collaborazione con Compagnia Teatropersona ed è tratto dal Macbeth di William Shakespeare che il regista ha voluto “tradurre” e “tradire”. Il sipario si alzerà mercoledì 21 marzo alle ore 21 e porterà sulla scena il Macbeth recitato in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini. Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze. Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche. 
Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve. In vista dello spettacolo del Masini, abbiamo intervistato il regista Alessandro Serra: con lui abbiamo ripercorso la genesi dello spettacolo, la versatilità della lingua sarda, e la poetica che sta alla base di questa rappresentazione.

Intervista al regista Alessandro Serra, autore di Macbettu

Come nasce l’idea di questo spettacolo e la trasposizione del dramma shakespeariano attraverso la lingua sarda?

Il regista Alessandro Serra.

L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia. I suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti. Le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo. Ma soprattutto il buio inverno. Sorprendenti le analogie tra il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere della Sardegna. In realtà non si tratta di una contaminazione, ciò che ho cercato di fare è estrarre dall’opera gli elementi universali riscontrabili in ogni anfratto del mondo e della storia oltre che nell’animo umano. Mi riferisco agli archetipi e ai meccanismi della natura umana. La Sardegna mi ha fornito la materia, la cenere, il sughero, il ferro, le cortecce degli alberi, il codice barbaricino, l’ironia pungente e irriverente dei carnevali, e poi le pietre che si fanno arma, nuraghe, ma soprattuto suono, grazie alle opere di Pinuccio Sciola.

In particolare cosa ti ha colpito del Carnevale barbaricino?

La presenza di Dioniso. Che è ebrezza e perfezione assoluta. nei canti, nelle danze. Il carnevale barbaricino è un rito.

“Il sardo mi sembrò perfetto per raccontare quel tragico destino”

Cosa ha trovato di particolare Alessandro Serra nella lingua sarda?

È la lingua di mio padre, un suono aspro, asciutto, tagliente. Una lingua cruda eppure incredibilmente musicale. Il sardo logudorese è la lingua del canto a tenore, che l’Unesco ha riconosciuto tra i patrimoni immateriali dell’umanità. Un suono che ha accompagnato le mie estati dai nonni. In casa si parlava sardo, si mangiava sardo, si beveva sardo, c’era l’odore del formaggio e della ricotta. Mio nonno si vestiva da nobile barbaricino, sapeva di casu marzu e parlava una lingua misteriosa e terribile. Quando nel febbraio del 2006 andai a Lula e poi a Bitti, Orgosolo, Gavoi… inseguendo i carnevali e i canti a tenore, quel suono che un tempo capivo e che mi faceva paura, risuonò in me e mi sembrò perfetto per raccontare quel tragico destino.

La Sardegna viene descritta anche “come terreno di archetipi, orizzonte di pulsioni dionisiache”. C’è spazio ancora per questi mondi nella contemporaneità? E’ il teatro che può dare ancora spazio a questi mondi?

Non il teatro che si pratica nel tempo presente, che troppo spesso si vergogna di essere teatro e si umilia a scimmiottare altri linguaggi, come il cinema, la televisione, il giornalismo. Non questo teatro ma il desiderio stesso di teatro, l’impossibilità di farne a meno. L’ancestrale necessità di una piccola comunità di riunirsi per un rito collettivo officiato da uno sciamano, da un prete, da un attore-danzatore. Il teatro risponde al desiderio di incontrare un essere umano, davvero, nel profondo, senza la falsità del quotidiano che ci consente di sopravvivere e non essere sopraffatti da questa pantomima che chiamiamo società.

“Dal Macbeth tutto è stato estratto con cura, distillato e dato in pasto agli attori”

In che senso questo spettacolo “traduce” e allo stesso tempo “tradisce” l’originale shakespeariano?

Lo traduce perchè c’è una lingua giusta per far risuonare quegli archetipi. Lo tradisce perchè Macbettu è una vera scrittura di scena a partire da un’opera che è un capolavoro di poesia e drammaturgia. C’è stato un espianto di organi vitali e preziosi: la trama, l’ordito, l’intreccio, i dialoghi, la poesia, le parole radianti, il contraddittorio, il sovrannaturale, i meccanismi dell’animo umano… tutto è stato estratto con cura, distillato e dato in pasto agli attori, che se ne sono nutriti per mesi e che dopo un lungo viaggio in una terra antica e misteriosa, un’isola di pietra galleggiante, lo hanno restituito in una forma inedita.

Questo spettacolo arriva a Faenza dopo che l’anno scorso era stato rappresentato un altro tuo spettacolo, H+G. Quali sono le similarità e le differenze tra le due rappresentazioni?

H+G e Macbettu sono opere profondamente mie nel senso che appartengono e nascono dalla mia sfera privata. Mi corrispondono nella forma e nell’aura che li ammmanta. C’è la mia vita, mia madre e mio padre. Ma allo stesso tempo sono entrambe due fiabe, nella struttura intendo, e quindi universali. In H+G c’è l’abbandono e l’iniziazione alla vita… fasi che tutti hanno attraversato. Per abbandono, non si intende solo essere lasciati in un bosco. Nella vita reale anche una frase apparentemente insignificante come: “Tu resta qui, non puoi entrare, torno a prenderti dopo”, può essere vissuta come un abbandono doloroso. In Macbettu si mostra l’incapacità dell’uomo di sostenere e accogliere il soprannaturale. Shakespeare ci fa vedere cosa accade quando non si è in grado di avere un contatto profondo con l’altra sfera… Macbeth trasforma il presagio di prosperità in una inutile carneficina. Ma Shakespeare ci dice anche dell’incapacità di vivere il presente, Macbeth vive e brucia il futuro, come la nostra società tecnologica.

C’è un filone comune che stai seguendo o hai voluto ‘rimescolare’ le carte?

Non seguo alcun filone. Ogni creazione nasce dalla necessità profonda di raccontare quella determinata storia o attraversare quel determinato mondo, da un incontro tra esseri umani, come una occasione per imparare e crescere.

Macbettu, il trailer

Alessandro Serra: “L’incontro vero col pubblico è fondamentale: Macbettu vive anche dei silenzi densissimi degli spettatori”

Macbettu ha vinto numerosi riconoscimenti. Nel corso delle varie rappresentazioni in giro per l’Italia e per il mondo, è cambiato il tuo modo di guardare a questo spettacolo?

Ci sono due motivi imprescindibili per cui continuo a fare teatro e a cercare di migliorarmi in questo “divino anacronismo” come diceva Orson Welles. I due elementi imprescindibili sono l’incontro con un pubblico vero e la dignità di una vocazione profonda ma che è anche un mestiere e come tale va ricompensato. Forse un poeta può esprimersi semplicemente obbedendo a una necessità dell’anima. Il teatro si fa per gli altri e in questo Shakespeare resta l’esempio più alto. I premi fanno molto piacere ma non aggiungono nulla all’incontro con il pubblico. Macbettu è vivo e vive grazie ai silenzi densissimi, alle apnee che a volte il pubblico ci restituisce e ci dona ma anche grazie alle potenti risate liberatorie che ci hanno fatto respirare e mi hanno guidato nella messa a punto del montaggio. Macbettu nasce dai corpi degli attori ma non esiste senza il respiro collettivo degli spettatori. Il pubblico ha in qualche modo partecipato al processo creativo. È un lusso che ci ha concesso Sardegna Teatro, quello di provare con calma e di poter incontrare il pubblico in varie tappe di studio. Sia chiaro non intendo il dibattito post spettacolo. Intendo proprio il mio essere in sala e ascoltare il respiro degli spettatori.

Oltre ai premi, qual è la soddisfazione più grande che Alessandro Serra prova ogni volta che viene messo in scena Macbettu?

A rischio di ripetermi direi la reazione degli spettatori.

Come è stato il lavoro dietro alle quinte e con gli attori in Macbettu?

Macbettu, come del resto ogni mia opera, è stato creato attraverso gli attori. Ci siamo presi un tempo per conoscerci ma soprattutto per suggerire loro il mio approccio alla scrittura di scena che non è, sia chiaro, una scrittura collettiva. Ma ogni mia visione, immagine, idea, ogni singolo elemento, oggetto, costume, raccolto nel periodo di preparazione allo spettacolo a un certo punto deve incontrare l’attore. Un incontro materico, emancipato dal testo o dall’ansia di dover trovare la soluzione giusta. E’ un gioco con la materia malleabile e pronta a reagire a ogni impulso. Dall’incontro con gli attori emergono le immagini o i momenti di profonda comicità ed emozione. Io devo solo stare molto attento a coglierli e a trasformarli per renderli duttili e utilizzabili nel montaggio. Tutto è ammesso, nessuno giudica nessuno, è davvero un gioco al massacro spesso senza senso e direzione. Gli attori a un certo punto iniziano a fidarsi di me, da quel momento in poi comincia il vero processo creativo, quando cioè l’attore non si difende più, depone le armi e si espone. La sincerità, diceva Grotowski, comincia laddove siamo indifesi.

Cosa diresti a un faentino per convincerlo ad andare a vedere la rappresentazione del 21 marzo?

Direi di non perdersi l’occasione di poter assistere a uno spettacolo popolare in cui si ride e si trattiene il respiro in coro. Un piccolo rito in cui otto attori si donano con generosità e ironia.

Quali sono i progetti futuri di Alessandro Serra?

Il giardino dei Ciliegi di Anton Cechov.

A cura di Samuele Marchi

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