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Che lingua parla la scienza? Riflessioni dal Post Talk a Faenza il 25 settembre

“Fatti non foste a viver come bruti”, uno degli endecasillabi danteschi più citati soprattutto in questi ultimi mesi. Forse perché tocca un tasto sensibile: l’attrazione che ciascuno ha verso l’ignoto. Tutto quello che non conosciamo un po’ ci spaventa un po’ ci incuriosisce. Se fino a qualche tempo fa la scienza, la ricerca, l’innovazione erano qualcosa di riservato agli “addetti ai lavori”, negli ultimi anni l’interesse verso queste discipline è cresciuto notevolmente. Ma che lingua parla la scienza? Perché tante persone non si fidano di ciò che dicono gli scienziati? Dev’esserci un problema di comunicazione; qualcosa di troppo complesso nel racconto della ricerca rende la narrazione di difficile comprensione. Ma è possibile essere compresi anche negli aspetti più complessi di uno studio per avere fiducia? Proviamo a riflettere su questo a partire da alcuni spunti che provengono proprio dagli “addetti ai lavori” che hanno animato una delle discussioni del Post Talk che si è tenuto a Faenza il 25 settembre nel complesso ex Salesiani proprio parlando di scienza.

Divulgazione o interazione?

“Il ricercatore è di certo abituato a tenere conferenze sui suoi studi, occasioni non di dialogo ma di esposizione di una ricerca. Tuttavia l’innovazione, ciò che permette ad esempio a una scoperta in campo medico di passare dal laboratorio al letto del paziente, ha bisogno di una buona competenza comunicativa”, osserva Anna Tampieri, direttrice Istec-Cnr. Parlare un linguaggio specifico e settoriale però significa risultare poco chiari e non compresi. Ecco allora che si parla di “terza missione” in tutti gli ambiti di ricerca. Divulgare, comunicare un concetto difficile in modo semplice perché possa essere compreso anche da chi non ha una particolare competenza nel settore, diventa un’esigenza perché la ricerca possa concretizzarsi. Eppure proprio la divulgazione per molti esperti significa sminuire la propria conoscenza ipersemplificando un concetto o riducendo l’esito di uno studio durato anni a un riassunto di pochi minuti. Non è così, ma resta vero che saper spiegare qualcosa senza risultare incomprensibili è una capacità che non hanno tutti e che alcuni passaggi, alcuni aspetti di uno studio, restano comprensibili solo se si dispone di un background culturale formato nella disciplina. La complessità fa parte del mondo e della scienza e non può essere estirpata da essi. La soluzione allora forse è nella parola stessa: “complessità” etimologicamente significa “intreccio”.  Ciò che definiamo complesso è ciò che intreccia aspetti diversi, diverse prospettive, di un problema comune. Ecco allora che un modo per ottenere fiducia nella ricerca è quello dell’interazione: se una realtà collettiva si fa sempre più ristretta richiudendosi nella sua “bolla” virtuale e reale, in cui non c’è confronto ma solo ripetizione di concetti tra chi la pensa allo stesso modo, allora non ci sarà alcuna fiducia. Se invece ogni realtà inizia a confrontarsi e interagire con realtà diverse che si occupano d’altro per il raggiungimento di un obiettivo comune allora si comprenderanno sempre più aspetti e si concretizzerà quella fiducia nella scienza che è necessaria alla scienza stessa per esistere.

Non solo più informazioni ma un confronto costante

“Non è quindi dando più informazioni che si aumenta la fiducia nella scienza – informazioni che così date possono anche non essere comprese- ma imparando a lavorare in team, unendo competenze e ruoli sociali diversi ma soprattutto abituandosi al confronto con chi si occupa di cose diverse” dice Marco Simoni, presidente della Fondazione Human Technopole che proprio portando l’esempio dei lavori di ricerca che hanno come sfondo l’area che ha ospitato parte dell’Expo di Milano.  D’accordo con quest’idea anche un “addetto ai lavori” come Filippo Piccinini, ricercatore Irst, unico europeo a ricevere il premio della Union International Cancer Control (Uicc) che sottolinea come questo sia importante per permettere alla scienza stessa di esistere: fare scienza è possibile solo “vedendo cosa hanno fatto gli scienziati prima di noi per capire cosa ancora c’è da fare”. Se siamo nani sulle spalle dei giganti allora è necessario che impariamo tutti la lingua di chi ha percorso prima di noi le strade delle scoperte per poterne decifrare, ognuno con le sue competenze, il percorso e le indicazioni che portano a mondi ancora inesplorati.

 

 

Letizia Di Deco

Classe 1998, vivo a Faenza. Mi sono laureata in Lettere Moderne e poi in Italianistica e Scienze linguistiche all’Università di Bologna. Scrivo per il settimanale Il Piccolo di Faenza. In attesa di tornare definitivamente in classe da prof, mi piace fare domande a chi ha qualcosa di bello da raccontare su ciò che accade dentro e fuori le pareti della scuola. Ho sempre bisogno di un buon libro da leggere, di dire la mia opinione sulle cose, di un po' di tempo per una corsetta…e di un caffè

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