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Wam! Festival: dall’1 al 26 settembre a Faenza tanti eventi nei parchi per ripartire nel segno della danza

Teatro, narrazione, musica e performance. Tornano gli appuntamenti a Faenza con Wam! Festival. La rassegna, giunta alla sua nona edizione, è curata da Compagnia Iris e Andrea Fronzoni  e si svolgerà dall’1 al 26 settembre. Il tema 2021 è quello della cura, che ognuno degli artisti presenti ha interpretato a suo modo. “Quest’anno abbiamo voluto puntare sull’anima Green del festival – sottolineano i promotori – organizzando gli spettacoli solo durante l’orario diurno e occupando molti parchi faentini, l’argine del fiume Lamone, il giardino botanico del parco Malmerendi e il prato, i filari, i campi e il bosco di Villa Emaldi”. Per maggiori informazioni sul programma completo e su orari, giorni e costi degli spettacoli: infowamfestival@gmail.com; www.wamfestival.com;  https://www.facebook.com/wam.festival.faenza

Intervista agli organizzatori del Wam! Festival

Ripartono gli appuntamenti con il Wam! Festival. Su cosa punta la rassegna con i prossimi eventi rivolti alla cittadinanza? 

Il 3 e il 4 settembre ci saranno ancora due eventi della parte di rassegna chiamata Wam! Green Community, nei parchi Mita e Torricelli , un’offerta culturale e formativa pensata ad hoc per questi luoghi, come una possibilità di cambiamento, di crescita e confronto. Un progetto culturale e sociale, per la cittadinanza tutta: i frequentatori abituali di due parchi “difficili” e coloro che potrebbero essere interessati a partecipare a un laboratorio di teatro di figura e due spettacoli. Il primo, Memoires di Kate Pilbeam, danzatrice inglese emigrata a Faenza che porta un’ opera alla ricerca della definizione di “casa”, radice, che si è interrogata sulle annose domande “Da dove veniamo? Dove stiamo andando?” Come possiamo portare con noi le nostre esperienze e prenderci cura del nostro futuro? Quali sono le tracce che lasciamo?” Cosa di più sensato che riflettere su questi temi in questi due parchi: crocevia di mondi, di persone che la loro casa d’origine l’hanno lasciata e ora fanno parte, volente o nolente, della comunità faentina. L’altro spettacolo Born Ghost di Coppelia Teatro: inquietante, ma anche commovente e delicato; una riflessione poetica sulla morte che racconta la leggenda del fantasma di Azzurrina di Montebello, la figlia albina di Costanza Malatesta e del feudatario Ugolinuccio, scomparsa in circostanze misteriose nel 1375. Fantasma la bambina lo era, in ogni caso, già in vita: isolata, incompresa, rinchiusa nel suo castello a causa dei suoi capelli bianchi. Nel Medioevo gli albini non erano infatti solo malvisti, ma tacciabili di stregoneria. Una storia tragica ed onirica sulla diversità che allora come oggi fa sempre paura, ma anche un inno alla libertà che è in sé guerra contro l’ignoranza e il pregiudizio. L’uso di vari strumenti del teatro di figura in commistione con l’utilizzo di musiche originali e di tecniche di danza e teatro fisico rendono la narrazione coinvolgente e ne arricchiscono il fascino cercando di ricostruire l’atmosfera di mistero e a-temporalità del castello di Montebello, ma con la ferma volontà di dare vita a una storia che sappia parlare prima di tutto al presente.

Stiamo cercando un modo per far sì che persone che vivono e a volte “stazionano” nei parchi possano fruire di possibilità culturali e un’opportunità per le persone che andranno a vedere uno spettacolo in luoghi che normalmente non frequenterebbero: una possibile via per l’integrazione, per sostenere la comunità e promuovere il benessere di tutti.

Quest’anno, praticamente tutti gli spettacoli, i workshop e le performance di Wam! Festival si svolgeranno all’aperto: giardini, parchi privati, parchi cittadini, orti, fiume, boschi. Abbiamo effettuato questa scelta per vari motivi: c’è il Covid e questo ci ha portato a riflettere molto sul nostro lavoro, sugli spazi chiusi, sulla necessità di stare all’aperto sia per motivi sanitari, che per motivi di benessere. Cerchiamo di stare in natura e prendercene cura, del nostro ambiente e della nostra “natura”, della natura degli altri e del rapporto con noi e la Terra.

Al centro del festival la parola “cura”

Una parola che avete voluto sottolineare in questa edizione è “cura”. In che modo si concretizza nelle attività che proponete?

Abbiamo già in parte risposto, aggiungiamo che molti eventi sono stati creati negli spazi, dove li vedrete. L’installazione partecipata Trame di noi di Laura Rambelli e Chiara Livecchi è un progetto dedicato alla cura della presenza nel qui e ora, qualità necessaria per poter stare in relazione tra umani/bambini e umani/ adulti. Partendo dalla evidente necessità di occuparsi della dimensione umana, fatta di incontri, di sguardi e di consapevolezze, continuamente minacciate, ora più che mai, dal nuovo assetto di distanze sociali. “Trame di noi” si manifesta come un’opera ecologica ed evocativa site specific per il Parco Tassinari, un cerchio di elementi naturali e di intrecci colorati al cui interno le persone verranno guidate, in un laboratorio espressivo, a fermarsi, soffermarsi, ascoltare, sentire, condividere, a lasciare un segno, a praticare l’ascolto e a mettersi in relazione con altri umani. L’opera d’arte circolare ed il laboratorio di co-creazione della stessa con la partecipazione dei cittadini, viene pensata come una metafora del tessere le fila delle relazioni e del prendersi cura della propria esistenza nel presente, in un’ottica di cooperazione solidale. Un invito a proteggere il senso della relazione umana ed educativa proprio in un luogo della città deputato all’incontro e della relazione.

La proiezione del film Volevo Nascondermi di Giorgio Diritti sulla vita del pittore Antonio Ligabue va incontro al nostro desiderio di mostrare varie declinazioni della parola cura, qui anche attraverso l’arte pittorica. Art brut, Outsider Art? Non importa, non importano le classificazioni.

Federico Caiazzo porterà Come va là dentro? un racconto che trova le sue radici nell’ex plesso manicomiale dell’Osservanza di Imola. Storie incentrate sull’empatia, fatti rari e insoliti in una struttura allora totalitaria. Negli ultimi tempi, con le dovute proporzioni, abbiamo vissuto sulla nostra pelle un’esperienza di  piccola segregazione. Come va là dentro? cerca di sfruttare questa urgenza per parlare con le persone, mettendo  al centro l’empatia e l’ascolto dell’altro, abbattendo il muro di intransigenza che caratterizza tutte le realtà che,  consapevoli o no, non si occupano più della “cura” delle persone quanto di un rigido controllo su di esse. Il tema della cura, che in Come va là dentro? sfocia spesso nel controllo dei degenti, si intreccia con la cura di cui  tutti dovremmo beneficiare oggi, dopo un anno e più fra lockdown, coprifuoco, divieti e paure. Si cerca di indicare  l’altro e il rapporto con l’Altro come via d’uscita dalla paura di vivere.

Quando faccio silenzio, a cura di Paola Ponti della Compagnia Iris è un evento di due ore, il pubblico è invitato a non parlare, a disperdersi, ad ascoltare, a prendere un tempo per sé. I partecipanti saranno condotti ai margini di un piccolo bosco, entro il quale ci si addentrerà individualmente, iniziando così un viaggio personale, solitario, indipendente, accompagnati da spunti di osservazione, ascolto, raccolta, riflessione. Il ritorno al contatto con la natura in questo momento pare essere particolarmente urgente, ma di quale “natura” parliamo? Di quale “natura” abbiamo bisogno? Cosa succede se invece di entrare in quello spazio per prendere qualcosa o per chiedere qualcosa o per lasciare qualcosa, ascoltiamo?

Marga Debora Bettoli,  in Voce come principio, ci racconterà di come la voce sia strumento primevo, un viaggio attraverso il tempo, dove il canto è la guida e la cura di questo cammino. La Bettoli vuole restituire attraverso la sua voce, le note del pianoforte e l’ausilio dell’elettronica ciò che testimoniano studiosi di antropologia e psicoanalisi quali J. Hillman, C. Pinkola Estes, M. Gimbutas: la voce, è stata la prima forma di guarigione usata fin dall’antichità più remota. La scrittura e la narrazione di Rosarita Berardi accompagneranno il concerto.

La Compagnia Barbarossa continuerà i suoi Esercizi d’ascolto nei parchi cittadini e lungo il fiume.

Denis Campitelli con il suo A trebbo con Shakespeare ci ricorda che quando si ha cura si è presenti. La presenza in senso antropologico, (parafrasando Ernesto de Martino) è intesa  come la capacità di conservare nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo  adeguato ad una determinata situazione storica, partecipandovi attivamente attraverso l’iniziativa personale e  andandovi oltre attraverso l’azione. La presenza significa dunque esserci (il “da-sein”heideggeriano) come persone  dotate di senso, in un contesto dotato di senso. Il Trebbo come rito teatrale crea, grazie alla partecipazione attiva del  pubblico,  un contesto dotato di senso che aiuta ad evitare una condizione di disinteressamento e di indolenza,  a sopportare una sorta di “crisi della presenza” e quindi di cura.

La danza al tempo del Covid-19

Come è cambiata la danza al tempo del Covid-19? 

La danza è stata duramente colpita, inutile negarlo. Scuola e studi chiusi, teatri chiusi, un prodotto online funziona quando nasce per questo media, il cinema continua a esercitare il suo grande fascino; ma le arti dove la presenza è necessaria sono in affanno. I danzatori, che partecipano a Wam! danzano fuori, tutti hanno avviato ricerca all’aperto da tempo, nell’unico luogo dove aveva senso stare. Noi di Wam! abbiamo deciso di spingere al massimo la nostra audacia e di andare nel mondo e portare il mondo a Faenza, ecco un esempio: in collaborazione con l’Università dell’Iowa,  abbiamo invitato i Fakers Club con due opere Episode 21 & 22, diretti da Stephanie Miracle con i danzatori Johann Geidies, Jordan Gigout, Liliana Ferri, Charlotte Virgile eAlejandro Russo. Il gruppo ricerca in spazi pubblici e attinge a piene mani dal cinema. Lo stile di regia di questo progetto fa riferimento ad Alfred Hitchcock, Jacque Tati e Jean Luc Goddard. Con un’estetica giocosa e kitsch delle serie tv di spionaggio / crimine degli anni 60 (pensate ad American Get Smart), Fakers Club crea un’esperienza visiva disarmante. Organizzati con cura con un tempismo intelligente e sincronizzato, questi personaggi riescono ad arrivare nel posto giusto al momento sbagliato o nel posto sbagliato al momento giusto; ogni episodio è decisamente pieno di umorismo. Il Fakers Club è una pratica socialmente impegnata in quanto si tratta di vedere, guardare più da vicino le relazioni con le persone, i luoghi e le cose che ci circondano. Una pratica dell’osservare che può ribaltare un punto di vista  e creare nuove associazioni rispetto a ciò che era ritenuto “ordinario, noto o assunto”. Rompere queste abitudini nella percezione può aprire la possibilità di comprensione ed empatia al mondo che ci circonda.

La danza in tutto il mondo si sta interrogando e sta ricercando su questi temi.

Tra gli ospiti del festival, il 12 settembre anche il teologo Vito Mancuso

Che riscontro di pubblico avete avuto finora? Quali sono state le esperienze più belle, significative e gratificanti? 

Un buon riscontro di pubblico, molto attento e partecipativo, sia durante gli spettacoli, che le performance e i laboratori. In giugno e luglio decine di giovanissimi danzatori, proveniente da tutt’Italia sono stati ospitati a casa di faentini e hanno danzato in due “Esercizio d’Ascolto” della Compagnia Barbarossa. Il tema generale il rispetto verso la propria casa, la terra, il proprio pianeta e la cura verso se stessi, volendo instaurare un moto armonico e circolare tra tutte le parti. Le performance sono state le conseguenze dirette dell’interazione tra l’ambiente e la loro presenza/tra la loro  presenza e l’ambiente. Si è trattato di manifestazioni esclusive, uniche, vissute e disegnate in quell’istante e sotto quel cielo,  “esercizi di connessione con la terra per curarci dall’astrazione e dall’arroganza”, come ricordano i due coreografi Alessio Barbarossa e Valentino Porcu.

Al parco Torricelli abbiamo assistito a quanto teorizzato da Mauss, sulla reciprocità del dono, come in poco tempo sia stato possibile creare una piccola rete con alcune delle persone che frequentano il parco. Bambini e ragazzini a cui era stata data una proposta culturale, nel caso specifico un concerto di musica elettronica suonato da Giulio Escalona  ( chiamato anche perché psicologo sociale), sono diventati attori attivi dell’evento e portatori essi stessi della loro cultura. Abbiamo ascoltato cantanti marocchine, rapper albanesi e ballato sulla musica pop rumena.

Francesca Gironi  con il suo Come farò a sollevarti / senza braccia, presenterà il 12 settembre l’esito del lavoro condotto nei mesi di marzo e aprile scorso, in cui era stata indetta una call pubblica per raccogliere i gesti e le testimonianze delle  persone: gesti di cura di sé e del mondo che hanno accompagnato l’assenza dell’altro durante questo periodo  emergenziale. I gesti con i quali abbiamo sopperito a una mancanza, alla solitudine, all’asfissia nel chiuso delle  case. Gesti di gioia nelle riconciliazioni, anche quelle con lo spazio aperto, gesti accompagnati dal silenzio delle  strade vuote, dal risveglio della natura in nostra assenza. La poetessa Gironi ha creato un archivio da cui attingere per una danza rituale e collettiva, che danzerà insieme al pubblico di Wam Festival.

Tra gli ospiti della rassegna è presente anche Vito Mancuso, che presenterà una lectio magistralis dal titolo “La mente innamorata”.  In che modo si inserisce in un contesto come quello di Wam? 

Nel corso del tempo abbiamo spesso invitato personaggi, che per noi si legavano particolarmente ai temi trattati nella rassegna, pensiamo allo storico dell’arte Alessandro Martoni, al professor Farinelli, al collettivo Wu Ming. Quest’anno, nelle riflessioni che hanno guidato la scelta di ogni artista, abbiamo pensato che anche un momento dialettico di Mancuso potesse apportare un tassello in più nella visione di Cura, che vogliamo promuovere, con il suo intervento La mente innamorata.

Anziano sarai tu: il punto sul crowdfunding, eventi dall’1 al 4 settembre

WAM anziani

Avete puntato molto sulla danza come mezzo espressivo intergenerazionale. Come è andata la campagna di crowdfunding “Anziano sarai tu” e che cosa prevede il progetto nei prossimi giorni? 

La campagna fino ad ora è andata bene, è ancora apertissima, siamo al secondo step, sperando che ai più di 80 cittadini che hanno partecipato e le aziende già coinvolte se ne vadano ad aggiungere altre. La forza del progetto sta in una proposta assolutamente innovativa per la città, un ciclo di laboratori di danza ed espressività corporea per gli over60 e non ballo liscio o ginnastica posturale, che hanno una loro valenza importantissima, ma sono qualcosa di diverso dalla nostra proposta; dove il corpo viene inteso come luogo in cui risiedono gesti, segni, memorie, significati possibili legati anche alla propria storia personale e alla storia del luogo in cui si vive, al proprio ambiente.  Per questo motivo, ogni tipo di corpo è benvenuto, non sono richieste pregresse esperienze o abilità particolari: ognuno con il corpo che ha, senza definire stereotipi legati a età o genere. Verrà proposto un lavoro di consapevolezza corporea e benessere, per poi passare alla sperimentazione del movimento da diversi punti di vista: funzionale, evocativo, poetico. Si comincerà l’1-2-3-4 settembre, dalle ore 9:45 alle 11:00 presso il Museo Internazionale delle Ceramiche. I primi due incontri saranno condotti in streaming dalla danzatrice Silvia Gribaudi, mentre il 3 e 4 settembre da Valentina Caggio e Paola Ponti di Compagnia Iris. Dopo questo assaggio, Anziano sarai tu diventerà annuale, una volta alla settimana, sperando pian piano di coinvolgere anche gli adolescenti per intrecciare saperi ed esperienze differenti.

“Cosa meglio dell’arte può trasformare il dolore e la sofferenza in speranza e conforto?”

In definitiva, perché partecipare a Wam? 

La domanda vera è, come è possibile non partecipare a Wam!? C’è danza, teatro, musica, arti visive, possibilità di partecipare agli spettacoli, passeggiate in bicicletta, stare all’aperto in mezzo al verde, laboratori per bambini, adolescenti, adulti, performance irripetibili, create per luoghi e tempi precisi solo per il pubblico del festival. Siamo orientati verso un domani che non sappiamo ancora come immaginare. Continuiamo a ripeterci, come un mantra benefico, che abbiamo bisogno di tornare alla normalità. Eppure, siamo consapevoli che questa tanto agognata condizione, che fino l’altro ieri suonava scontata, persino banale, acquista oggi valenze nuove e catartiche. Come torneremo ad abbracciarci? A sfiorarci, toccarci, baciarci? Come si è radicalmente modificata la nostra sfera umana, domestica, spaziale? Se siamo sopravvissuti al virus, non possiamo sopravvivere a noi stessi come se la pandemia fosse stata solo un breve incubo. Dobbiamo ripartire da una nuova grammatica dello spazio, del corpo e dello sguardo. Abbiamo bisogno di ri-codificare noi e l’altro.

Lo sappiamo tutti: non esistono ricette preconfezionate. La comprensione richiede tempo, osservazione, amore. In una parola: cura. Da questa necessità, tentiamo di ripartire.  Con questo bisogno primario, abbiamo immaginato questa edizione del festival, l’incontro fra le arti, gli studiosi, il pubblico. Affidiamo a loro, agli artisti e alle loro cure, l’arduo compito di fare memoria di quanto è stato per tracciare nuove parabole umane. Chi meglio di loro può trasformare il dolore e la sofferenza in speranza e conforto? Chi meglio dell’arte può affondare le sue radici nelle complessità del reale e far affiorare brandelli di verità e spunti di comprensione? Chi meglio della danza può tentare di dare un nuovo senso allo spazio e al contatto fra due esseri umani? Mai come oggi è difficile osare un festival. Ma è un’azione necessaria, perché prima di tutto rappresenta un prendersi cura – di sé, dell’altro, del mondo – nonostante le lacerazioni del tempo presente.

 

Samuele Marchi

Giornalista, sono nato a Faenza e dopo la laurea in Lettere all’Università di Bologna frequento il master in 'Sviluppo creativo e gestione delle attività culturali' dell’Università di Venezia/Scuola Holden. Ho collaborato con diverse testate locali e nazionali come Veneto Economia, Alto Adige Innovazione, Cortina Ski 2021, Il Piccolo, Faenza Web Tv. Ho partecipato all'organizzazione del congresso nazionale Aiga 2015 e del Padova Innovation Day. Nel 2016 ho pubblicato il libro “Un viaggio (e ritorno) nei Canti Orfici” (Carta Bianca editore) dedicato al poeta Dino Campana. Amo i cappelletti, tifo Lazio e, come facendo un puzzle, cerco di dare un senso alle cose che mi accadono attorno.

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