Malcom & Marie di Sam Levinson
“Quando ti senti amato e protetto da qualcuno, ti dimentichi di quella persona”
Marie – Zendaya (Malcom & Marie)
Dopo una bella serata di celebrazione e autocompiacimento, dovuta al successo della première del suo nuovo film, il regista Malcom (John David Washington) e la sua splendida compagna Marie (Zendaya) tornano a casa a notte fonda. Lui vorrebbe chiudere la giornata nel migliore dei modi, in euforia e felicità, ma la ragazza non è d’accordo. Qualcosa è successo quella sera: Niente di grave apparentemente, un nonnulla, una piccola scintilla che, se isolata, nemmeno catturerebbe interesse.
Ciononostante questa volta, quella stessa scintilla è la causa scatenante di un inaspettato incendio dirompente. Un fuoco scatenato che avanza e brucia, inesorabile, tutto ciò che si trova di fronte. Convinzioni, ricordi, allusioni, speranze, sconfitte e vittorie. Tutto finirà vittima delle fiamme dell’odio, annichilendo anche i sentimenti umani.
Ma forse, non l’amore. Almeno… non del tutto.
Malcom & Marie è un film del 2021, girato interamente durante il periodo della quarantena, diretto da Sam Levinson (fratello del più famoso Barry), già autore della serie tv “Euphoria” e produttore di un altro film da tenere in considerazione quest’anno, ovvero “Pieces of a Woman” di Kornél Mundruczo
Un gioco al massacro in bianco e nero.
Utilizzando una fotografia molto suggestiva, l’autore sembra voler insediare nello spettatore un senso di frustrazione e claustrofobia, come quella di una persona legata indissolubilmente ad un luogo che non può lasciare né abbandonare.
Parallelamente a ciò, i due protagonisti sono legati l’un l’altro da una situazione malata e surreale, la quale li costringe in un ripetersi logorante di gioie e dolori, di felicità e sofferenza, di pace e guerra.
Un circolo vizioso in cui la carnalità e la malizia si confondono di continuo e i sentimenti dei personaggi sono composti da cambi così rapidi e scattanti da risultarne quasi schizofrenici.
L’ambientazione casalinga così semplice e basilare è dovuta, oltre ovviamente alla pandemia, a ragioni narrative molto precise: un appartamento accogliente e lussuoso, dove risiede una meravigliosa coppia di individui aitanti e popolari, ma che si rivela essere ben
presto il campo di battaglia ideale di una lite furibonda atta a spezzare gli animi e a togliere il fiato.
Un’ impostazione teatrale troppo accentuata o un leggero abbandonarsi nello scorrere del testo?
Uno dei più grandi geni della settimana arte, Alfred Hitchcook, aveva definito il cinema come un insieme di tre cose: sceneggiatura, sceneggiatura e sceneggiatura.
Detto ciò, la domanda da porsi è: sul grande schermo, quanto oltre può spingersi la scrittura dei dialoghi se quest’ultimi poi rappresentano il punto focale dell’opera, non lasciando minimo spazio alle immagini?
In questo caso ci troviamo di fronte ad un classico film in cui la parola diventa centrale.
Simile per volti versi a “Carnage” di Roman Polanski o “Storia di un matrimonio” di Noah Baumbach, per intenderci.
Ciò può portare a considerazioni negative se si analizza l’insieme totale della pellicola, la quale potrebbe apparire didascalica e pretenziosa, pur regalando diversi momenti di brillante riflessione sociale sulla condizione degli artisti afroamericani nell’attuale periodo storico,
assieme a pesanti scoccate all’enorme e capitalistica industria cinematografica statunitense, e non solo.
L’impostazione teatrale non passa inosservata, tendendo a limitare di parecchio i movimenti di macchina e ad utilizzare invece inquadrature composte principalmente da molti primi piani che esaltano le performance recitative degli interpreti, o sequenze che seguono il camminare degli attori nelle stanze, come a voler entrare nel loro nel privato: un viaggio da reality nella vita delle superstar hollywoodiane.
Atmosfere intime così spettacolari e così irraggiungibili che, viste da vicino, aldilà dei falsi sorrisi scenici durante i festival, dimostrano un egocentrismo senza confini e una volontà irrefrenabile di ferirsi vicendevolmente con amarezza.
Malcom e Marie
Levinson sceglie per il suo lungometraggio due volti giovani, bellissimi e con un carisma a tratti sorprendente.
Ogni frase scandita da Marie è frutto di un vissuto pieno di ostacoli e sofferenza, un passato che potrebbe riemergere in qualsiasi momento e che condiziona irrimediabilmente il rapporto con il partner tramite un isterico timore di essere abbandonata al suo destino.
Malcom invece è affamato. Un uomo affamato di conferme e di esaltazioni. E ciò è confermato anche in senso materiale, quando si troverà di fronte un piatto di maccheroni appena sfornati, dimostrando tutta la sua voracità, divorandone in poco tempo due ricche porzioni.
Quando queste due psicologie entreranno in conflitto, l’inferno scenderà in terra.
Ciò che rimane dopo la tempesta è un’immagine di due persone disturbate e compromesse, le quali dimostrano un affetto reciproco che non può essere dissociato al malessere e all’astio.
Due guerrieri che per due ore non si daranno pace, sfoggiando tutte le armi a loro disposizione per annientare il nemico. Contemporaneamente il loro recondito legame affettivo li trascinerà sempre a ricercare quei rari attimi di calma e armonia che li rendono
inseparabili.
Persino non avere problemi può diventare un grosso problema. Noi siamo perfettamente consapevoli che una vita come la nostra ha i suoi lati pericolosi.
(Marianne – Liv Ullmann)
Alex Bonora