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Tinariwen: il rock nato dalle dune del deserto, una strada di integrazione

La musica a volte è in grado di arrivare là dove la razionalità non riesce. “Integrazione” è una parola che negli ultimi mesi rieccheggia molto nei discorsi sia istituzionali sia della gente comune. Uno dei tanti significati della parola “integrazione” lo abbiamo scoperto – anzi, per meglio dire, lo abbiamo vissuto – ieri sera, venerdì 29 luglio, in piazza Nenni di Faenza. Sul palco si sono esibite nello stesso momento sonorità arabe, strumenti africani, chitarre rock: il tutto incorniciato da un pubblico che ha accompagnato con danze per tutta l’ora e mezza del concerto il succedersi delle canzoni.

A esibirsi sono stati i Tinariwen, gruppo tuareg del nord est del Mali, che hanno presentato di fronte a una piazza Nenni piena il loro nuovo album, il settimo, fresco di stampa. I Tinariwen professano la religione musulmana, dando testimonianza concreta di un islam aperto e tollerante. Tra blues, rock e musica popolare Tuareg la band ha appena completato le registrazioni nel deserto roccioso vicino M’Hamid, una piccola città nel sud del Marocco (conosciuta anche con il nome berbero di Taragalte). Questa particolare area è stata scelta perchè la loro città natale nel nord del Mali (ex colonia francese), si è ultimamente rivelata troppo instabile e pericolosa a causa di nuovi conflitti. Taragalte è anche un luogo di notevole importanza culturale per la popolazione Tuareg-berbera essendo il luogo in cui tutte le carovane si fermavano prima di continuare il lungo viaggio per Timbuktu.

Tinariwen e assouf: la nostalgia della propria terra

Le riprese del disco sono iniziate nel febbraio 2016 in uno studio di registrazione mobile posizionato sotto una tenda, circondato da dune del deserto. Tre settimane per suonare, arrangiare e registrare. L’ album include anche dei brani registrati durante la Rancho De La Luna Session nella quale I Tinariwen parteciparono nel 2014 insieme ad Alain Johannes, Kurt Vile and Matt Sweeney.

A proposito del loro ultimo disco, i Tinariwen suonarono per la prima volta a Taragalte nel 2008 per il festival che prende appunto il nome berbero della cittadina. Da quella volta l’idea rimase viva e presto diventò chiaro che quel luogo sarebbe stato scelto per registrare un loro nuovo album. «Condividere lo stesso sentimento viscerale per la loro terra – recita una nota del comunicato degli organizzatori – la loro libertà, la loro semplice vita e il loro “assouf” (un senso di assoluta e profonda nostalgia che emerge quando si è lontani dalla propria terra) era qualcosa che I Tinariwen avrebbero dovuto fare con i loro fratelli nomadi di Taragalte, qualcosa che risuonava specialmente tra le giovani generazioni dell’area di Zagora».

Una musica nata nei campi di Gheddafi

Una musica che prende letteralmente forma dalla sabbia del deserto. I Tinariwen nascono ufficialmente nel 1996 e divennero famosi in tutto il mondo una decina d’anni dopo, quando le loro performance colpirono il noto chitarrista Carlos Santana che li volle con sé per alcuni tour. Ibrahim Ag Alhabib, il fondatore del gruppo, rimasto orfano di padre ed esule in Algeria, iniziò ad appassionarsi a vari tipi di musica: tipiche melodie tradizionali dei tuareg, blues, raï (che ascoltava nelle taverne algerine), il chaabi marocchino e anche il rock e il pop occidentale. Ibrahim cercò di riprodurre questi tipi di musica con una chitarra costruita da lui stesso. Con questa chitarra si esibì in concerti tenuti negli accampamenti dei profughi Tamashek tra gli anni settanta e ottanta assieme ad Alhassane Ag Touhami e Inteyeden Ag Ableine, altri due esiliati suoi compatrioti. Iniziò a suonare con le chitarre acustiche ed elettriche in Libia, nei campi nei quali il colonnello Gheddafi addestrava i combattenti dei movimenti di liberazione di mezza Africa. Vennero a far parte del gruppo in questo periodo Kheddou, Mohammed Ag Itlale e Abdallah Ag Alhousseyni tutti e tre profughi Tamashek.

Integrazione: una strada, tante strade

Durante l’ora e mezza di concerto si è respirata in piazza Nenni di Faenza un’atmosfera magica. Per un’ora e mezza è sembrato come se tanti discorsi superficiali che ambiscono a parlare di incomprensione culturale, religiosa e razziale non avessero minimamente senso. Per un’ora e mezza si è avuta la sensazione, nonostante le tante problematiche che caratterizzano il mondo contemporaneo, fosse possibile “un mond piò bel“. «La musica sarà sempre un mezzo attraverso il quale l’individuo – raccontano in questa intervista a Repubblica – può conoscersi e riconoscersi. È un linguaggio che ci permette di esprimere ciò in cui crediamo e quello a cui aspiriamo. Per questo deve fare inevitabilmente parte della necessità di risveglio globale». Poi la musica finisce e il sipario si chiude. A noi non restano che gli accordi suonati da una chitarra rock, le percussioni di un bongo, e una voce che proviene dal lontano deserto. Una voce molto più profonda di tante che risuonano oggi in tv o nei social network.

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